
Roma, ottobre 1969
Fuori, sulla via Salaria, i clacson scandiscono spavaldamente « ta-tarata-ta-ta, viva la Roma! », le macchine procedono lente con un insopportabile stridore di freni, i drappi giallo-rossi vengono sventolati dai finestrini con urla barbariche: i romani tornano dal derby e la strada aristocratica, chiusa fra il parco di Villa Savoia e le palazzine dai balconi ancora fioriti di gerani, sembra un fiume tumultuante.
Dentro, al n. 366, nel villino color mattone sepolto fra gli alberi e difeso da un muro di cinta altissimo, il “gran signore” giace nella poltrona di cuoio. La luce di una lampada gli disegna un cerchio netto sulla vestaglia di cachemire rosso. Intorno è la penombra, il silenzio.
Il “gran signore” è sofferente. Riceve in pigiama, e si scusa. È squassato da una tosse cavernosa, e chiede perdono. Non desidera essere fotografato in quello stato: potremo mai comprenderlo? Era tentato persino di rinviare l’appuntamento, ma non si viene meno alla parola data, non si disdice all’ultimo momento l’impegno assunto. Così Luchino Visconti ci accoglie ugualmente, alle 17 in punto, nella sua incredibile casa arredata con paraventi Coromandel e divani immensi, obelischi di marmo rosa e grandi specchiere del Settecento e pile di libri ammucchiati sulle sedie: una scenografia di raffinata decadenza che richiama alla memoria quella del suo ultimo film, La caduta degli dei.
— Mi dicono che il pubblico segue la pellicola con estrema attenzione — comincia a dire il “gran signore” in un sussurro, rinserrandosi nella vestaglia con un brivido.
— L’ho visto ieri a Milano, — faccio io — e da tempo non mi capitava di avvertire fra gli spettatori una tensione così carica.
— Mi dicono anche che la gente, dopo averlo visto, ne parla a lungo, discute, non ci dorme la notte.
— E infatti io ho avuto degli incubi.
— Mi è giunto all’orecchio che gli industriali milanesi, al contrario, non si siano mostrati molto entusiasti. Anzi hanno reagito gelidamente.
— Non faccio fatica a crederlo.
— Ma questo è bene, questo è salutare. Perché non si può vivere nascondendo la testa nella sabbia, come gli struzzi.
Dall’ampia vetrata s’intravvedono le foglie degli alberi accendersi all’ultimo raggio di sole. Una cane abbaglia furioso.
— La tragedia della famiglia Essenbeck, i grandi industriali tedeschi dell’acciaio (un po’ Krupp, un po’ von Thyssen) protagonisti de La caduta degli dei, potrebbe avere delle analogie con i nostri giorni? La condanna di un certo capitalismo degli Anni Trenta che, pur di mantenere il potere, stringe alleanze inverosimili e determina l’ascesa del dittatore, potrebbe servire di ammonimento a noi?
— Non ci troviamo nello stesso momento storico. — dice Visconti, ritrovando vigore nelle parole e nei gesti — Oggi l’Europa è profondamente diversa da quella che, allora, stava preparandosi all’autodistruzione. Credo che non sia possibile trovare analogie con la situazione attuale. Ma è anche vero che, se c’è da trarre una lezione dalla vicenda degli Essenbeck, questa è la lezione della storia: che è sempre valida, ieri come oggi, oggi come domani, ma può anche non insegnarci nulla.
— Nella Caduta degli dei c’è una frase che riassume il suo credo di uomo e di artista: “Bisogna che qualcuno ne parli”, dice l’unico membro della famiglia proscritto dai nazisti e messo al bando dallo stesso clan per le sue idee democratiche. “Bisogna che qualcuno ne parli perché gli altri sappiano e ricordino”. Ora, se è vero che il film fa meditare le generazioni che hanno vissuto e sofferto la seconda guerra mondiale, in quale misura è valido per i ventenni, impegnati nella contestazione sui modelli di Mao e di Castro?
Il “gran signore” si passa la mano sugli occhi affaticati. Sembra in preda a una stanchezza mortale. Il 2 novembre compirà 63 anni. Questo film, che appena uscito fa già tanto parlare di sé, affolla le platee come non accadeva da tempo e trova la critica unanime nel giudizio entusiasta, questo film riempie ora la sua vita, nella letizia e nel tormento. Hanno scritto di lui: « Il vecchio leone non ha perduto i suoi artigli », « Ecco un’opera che dimostra come il cinema italiano non sia morto », « La nuova giovinezza di Visconti », « La forza, il vigore, la maestria, il serio professionismo del regista ».
— I giovani vanno a vedere il mio film, e, mi assicurano, sono fra i più attenti del pubblico. Io sono convinto che non sia necessario parlare di Mao o di contestazione per interessare le nuove generazioni. Il discorso che faccio è quello di sempre: contro la dittatura, contro la distruzione della personalità umana ad opera del tiranno. E questo discorso i giovani lo comprendono benissimo.
(dall’intervista di Carla Stampa pubblicata sul settimanale Epoca)