La giuria ha cercato di risarcire il regista di Morte a Venezia con un riconoscimento speciale

Cannes, 27 maggio 1971

Dovremmo averci fatto l’abitudine: i verdetti di Cannes si enunciano, non si commentano. Losey con The Go-Between ha dunque soffiato la Palma d’oro a Visconti: com’era nell’aria. È probabile che la rinverdita amicizia tra la Francia e la Gran Bretagna abbia avuto il suo peso nella piccola ingiustizia consumata ai danni di Morte a Venezia. Diciamo piccola, perché il regista italiano è stato risarcito col premio speciale per il XXV anniversario del festival che va non soltanto al film esposto ma « al complesso di un’opera che onora l’arte del cinema ».

« Io non voglio giubilazioni, non voglio omaggi all’opera completa e alla mia personalità di regista. Avranno magari anche il loro valore, ma non me ne importa niente ». Luchino Visconti non è affatto contento del premio intitolato al venticinquennale del Festival di Cannes: premio del resto non previsto all’inizio, ma inventato in fretta per salvare impossibili equilibri, per consentire risibili alchimie.

« Personalmente, dei premi me ne infischio », assicura, di pessimo umore, « non li considero un giudizio valido sul mio lavoro, non mi incoraggiano né mi scoraggiano. Pensi a come mi ha trattato la Mostra di Venezia, non premiando i miei film più belli: sono andato avanti lo stesso, credo, e senza preoccuparmi minimamente. Oggi, poi, ai premi tengo meno che mai ». Allora perché è tanto irritato? « Perché volevo la Palma d’oro per Morte a Venezia », replica con prepotente ostinazione, « a me i premi non servono. Come regista mi basta il successo che il film ha avuto in Italia e in Inghilterra, mi basta il calore della critica e i consensi che ha ottenuto qui. Ma di Morte a Venezia sono anche produttore. Parlando da produttore, la Palma d’oro poteva essere utile alla diffusione e agli incassi del film, che deve ancora uscire in Francia e in America ».

Nonostante la delusione, continua a pensare che la competizione, in un festival cinematografico, sia necessaria: « Presenta diversi inconvenienti, certo. Se corri con avversari inferiori, è troppo facile; se gareggi con avversari di buon livello, puoi anche non arrivare primo. Però correre è divertente. A questo festival partecipavano opere molto interessanti, i film di Forman, di Widerberg e di Trumbo, di Montaldo e di Malle, i film ungherese e polacco. Ah, sì anche il film di Losey. Naturalmente. Carino, ma non dei suoi migliori: con delle zone piatte nella parte centrale, con qualche incertezza e superficialità nel racconto, senza cattiveria… Comunque, erano tutti cavalli da derby. Se uno si mette in corsa, sa già che ogni corsa può presentare imprevisti e capovolgimenti di situazione: deve correre pure i rischi ».

La metafora complicata resuscita il suo passato di proprietario di cavalli e appassionato frequentatore di ippodromi: quello che fa arrabbiare Visconti è proprio l’essere stato messo fuori (o al di sopra) della competizione da un premio-omaggio che gli appare troppo rispettoso e reverente, « Una pietra tombale », scatta, « come se fossi già morto o almeno finito, come se avessi ormai detto tutto quel che potevo dire, e non restasse che celebrarmi ».

Invece ferve di programmi e di attivismo. Rinviato al gennaio del 1972 l’inizio del film tratto dalla « Recherche » di Proust, ha deciso di dedicare i prossimi mesi alla realizzazione di un nuovo progetto: « La storia della bizzarra amicizia tra il folle re Luigi II di Baviera e la folle Elisabetta d’Austria, madre del suicida Rodolfo. Un’amicizia durata lunghi anni, molto romantica, molto wagneriana: lui si credeva un Lohengrin, lei una Elsa o una Isotta ». In realtà furono due personaggi straordinari per eccentricità e megalomania. Luigi di Baviera, mecenate di Wagner, passò l’intera vita a ricostruirsi una Versailles bavarese, a farsi costruire e arredare castelli e teatri di corte di uno sfarzo demente; isolato da ogni impegno regale a causa della sua pazzia; isolato dalla famiglia a causa della sua omosessualità, finì suicida (o forse assassinato da un amico più crudele degli altri) in un lago, Elisabetta d’Austria, « una Wittelsbach di sangue malato », come dice Visconti, si era rinchiusa dopo la morte del figlio nella solitudine e nella feroce misantropia; finì pugnalata da un anarchico a Ginevra.

« Il film avrà come base il diario di Luigi di Baviera e racconterà il legame tra queste due creature dannate », spiega il regista. Ha già scelto gli interpreti, due dei suoi amici più cari, Helmut Berger e Romy Schneider: « Helmut è pazzo e austriaco. Romy è austriaca, un po’ pazza; e sarà divertente far interpretare Elisabetta proprio da lei, che ha recitato tutte quelle leziose Imperatrici Sissi ». Comincerà a lavorare prestissimo, alla fine di giugno: « Sono fermo da quasi un anno; ho bisogno di lavorare, sono incapace di stare senza far niente. Non ho poi troppo tempo davanti a me ». Un piccolo sospiro di civetteria, un ghigno ironico: « Ma per i premi alla memoria è troppo presto, checché ne pensino i giurati del Festival di Cannes ».

Leo Pestelli e Lietta Tornabuoni