Roma, giugno 1972

« È una gioia, certe volte, finir di girare e sapere di poter correre a casa a leggere un libro. Della lettura non posso fare a meno: è uno stimolo continuo. D’altronde, ogni film che ho fatto, aveva sempre alle spalle un libro ».

Il salotto della casa romana di Luchino Visconti è attraversato in tutta la lunghezza dai raggi del sole che sta tramontando: una luce di fiamma entra dalla vetrata contro la quale si profilano alcune piccole sculture, si riverbera sui tappeti e va a morire contro la lunga finestra che guarda il giardino. Visconti è seduto accanto a un basso tavolino invaso da cristalli e cornici, e tiene a portata di mano il telefono, un taccuino, qualche penna, uno o due libri. Sembrerebbe un capitano di mare uscito via da un romanzo di Melville, che si lascia sorprendere vicino ad alcuni strumenti di navigazione, compassi e carte marine, in un angolo di cabina.

L’espressione del viso stretta dentro i lineamenti incisi come quelli d’un animale fantastico, l’abito di gabardine color sabbia, le mani che talvolta volano in aria per dar forza a un argomento, Visconti sta enumerando i suoi film e le fonti d’ispirazione: « Ossessione aveva dietro di sé i romanzi americani che durante la guerra si leggevano di straforo ». Saccheggiò II postino suona sempre due volte di James Cain, ma l’immagine di Ferrara, dove lo girò, e della campagna lungo gli argini del Po, dovevano diventare i primi simboli del neorealismo. « La terra trema era Verga, i Malavoglia. Saltiamo Bellissima, che invece nacque da un soggetto cinematografico puro e semplice; Senso era il racconto di Camillo Boito. Rocco e i suoi fratelli veniva dai racconti di Giovanni Testori, cui avevo mescolato L’idiota di Dostoevskij. Il gattopardo era II gattopardo. Dietro Vaghe stelle dell’Orsa c’era l’Elettra. Lo straniero era Camus. Ne La caduta degli dei ho messo insieme Dostoevskij, Mann e le letture che avevo fatto sul nazismo, prima tra tutte la Storia di Shirer. Fino a Morte a Venezia, e fino al Ludwig clic sto terminando, dove c’è il mondo wagneriano visto attraverso le sue componenti culturali, non sono mai riuscito a sottrarmi alla letteratura ».

Dobbiamo ricavare, da questa enumerazione, l’idea che il gusto di Visconti abbia come unici punti di riferimento t narratori dell’arca realistica ed esistenzialistica, accanto a quelli del decadentismo tedesco? Sarebbe semplificare la questione, pure se il realismo, come drammatica rappresentazione della società, e una sensibilità che sa cogliere nel morboso riflessi non soltanto psicologici, gli sono connaturali. Visconti seguita: «Da ragazzo non studiavo con mollo scrupolo, ma leggevo moltissimo. Andavo alla libreria Baldini e Castoldi di Milano e comperavo più che potevo, piantavo giù certi conti sbalorditivi. Mio padre brontolava, ma poi pagava. Preferiva così, che spendessi più in libri che in altro. Anche lui aveva la passione di leggere. Ricordo che una volta mi disse di aver tra le mani un libro tanto bello per cui ogni pagina letta diventava motivo di rammarico: peccato, una di meno! Il libro era Du côté de chez Swann di Proust. Poi lo lessi anch’io e venni preso dalla febbre proustiana ».

Una febbre che dura tuttora, non c’è che dire; e, anche ad ignorare che Visconti ha tentato di tradurre in cinema la Recherche — un progetto che pare sfumato — basta guardarsi intorno, in questo salotto, per avvertire che l’infittirsi degli oggetti su ogni possibile ripiano, i quadri disposti quasi a coprire una tappezzeria su cui va disegnandosi un paesaggio, è in qualche modo la celebrazione di uno stile che in Proust ebbe luce di poesia.

Il modem style più conseguente svuotò gli interni delle case, stilizzò gli arredi, li rese, come si disse, estetici. D’Annunzio riempì tutto di nuovo con l’idea di trasformare in monumento tutto quello che ebbe la sorte d’essere sfiorato da lui. In questa stanza, invece, è come se le memorie di un’esistenza, per non disperdersi, avessero bisogno di aggrapparsi a quell’astuccio, a quel vaso Lalique o a quella scatola di lacca sul cui coperchio c’è il ritratto di Esenin, di Puskin, di Gogol. E a questo punto il capitano di mare si muta in un rentier, in un gentiluomo di campagna di quelli che non s’incontrano più, affabile ma misantropo, scontento per tutto ciò che il mondo gli ha offerto, per cui è felice di starsene ben difeso fra le cose che più ama.

« Adoro l’intrigo, l’inseguirsi dei fatti, e a questa mia passione la narrativa più recente dà poca soddisfazione. Ma non e bellissimo scrutare una persona che incontri per caso e inventargli un destino? No, questo non si fa più: si scrivono libri tediosi in cui, al massimo, l’autore racconta propri fatti personali. L’unico che mi pare tenga ancora fede agli intrighi è Moravia. Ed io torno a leggere Balzac, che oggi mi piace più di quanto mi piacesse da ragazzo, al tempo in cui con i miei fratelli riducevamo una tragedia di Shakespeare a tre quarti d’ora di testo e la recitavamo in casa ».

Il ricordo lo fa sorridere, e poi prosegue: « Rileggere, d’altra parte, è una delle gioie più acute che provo: mi piace ritrovare i personaggi dei libri come fossero vecchie conoscenze, prevedere l’incontro che avrò con loro e l’emozione che me ne verrà, il bello è che l’emozione è sempre nuova, sempre diversa ».

Ma, accanto a Balzac, quali furono le letture della giovinezza?

« Leggevo tutto. Da Baldini e Castoldi comperavo anche Salvator Gotta e Luciano Zùccoli, così come oggi compero La donna della domenica. La letteratura minore può essere molto divertente, specie quando si lascia prendere tanto al dritto quanto al rovescio. Ma amavo anche Stendhal, e lo amo ancora: cosa può sostituire il momento in cui Julien, ne II rosso e il nero, posa la testa sulle ginocchia di Mathilde? Leggevo Dostoevskij, poi impazzii per Tolstoi, poi per Gide e per gli autori della Nouvelle Revue Française. Feci anche pellegrinaggi nei luoghi gidiani. Avevo una specie di fame per la letteratura che ogni romanzo divorato raddoppiava invece di saziare. Ero più avido di libri che di musica: e la studiavo con amore. Studiavo violoncello insieme ad armonia e composizione ».

La luce infiammata del tramonto si è mutata nella luminosità violacea del crepuscolo. Una Giuditta di Francesco del Cairo, il ritratto femminile di un giovanissimo De Chirico, il piccolo gruppo di giocatori di un caravaggesco, un vialetto di Chini che parrebbe dipinto da Vuillard, sembrano annegare, sulle pareti, in quel chiarore, mentre Visconti parla di sé e del melodramma.

« L’opera, quando ero ragazzo, era lo spettacolo per antonomasia. Andare all’opera era ancora come essere immersi nell’Ottocento. Per me, il sipario della Scala, tremolante prima dell’inizio dello spettacolo, il preludiare degli strumentisti, rappresentavano l’anticipazione di ogni piacere. Avevamo il palco proprio sull’orchestra: stavo lì in ansia per la curiosità di sapere quello che sarebbe accaduto una volta tirata la tela. Quel piacere, devo dire, il cinema non riesce a supplirlo. Non mi piace tornare a vedere un film già visto: Il trovatore l’ho invece visto e sentito tantissime volte. È quel che mi accade con i romanzi ».

Visconti torna ad enumerare i personaggi che più l’appassionano, e a me vengono a mente certe parole di Oscar Wilde: « L’intimità con Balzac riduce i nostri amici a ombre, le relazioni a ombre di ombre. Chi si curerebbe di andare a un pranzo per incontrare un umico d’infanzia se potesse restare accanto al fuoco in compagnia di Lucien de Rubempré! ».

Enzo Siciliano