Sarà la più bella celebrazione di Verdi
Luchino Visconti dirige la sua « scoperta » Franca Fabbri
Spoleto 15 giugno 1963
Arrivati nottetempo a Spoleto, siamo stati costretti a scavare cunicoli: (una faticaccia), per sbucare inosservati all’interno del Teatro Nuovo. Vi si è asserragliato Luchino Visconti alle prese con la Traviata e il teatro in questi giorni è una fortezza inespugnabile. Senonché, la storia è maestra e qualcosa del genere (gallerie sotterranee) dev’essere successa in una guerra tra i romani e quelli di Veio.
A Spoleto, però, niente guerra (tranne la guerricciola ormai « dei sei anni », combattuta variamente contro il Festival non si sa bene perché). Anzi c’era in giro una bella processione. Usciva dal Duomo, avviata dalle ragazzine con ali da angioletto, mentre il Caio Melisso era in grave fermento per le prove del Finnegan’s Wake di James Joyce. Una cosa, pare, incomprensibile, giocata sull’accostamento di parole, suoni, luci, gesti, danze, ombre, misteri. A dare un’occhiata si capisce che qui bisogna aspettare la « prima » per sapere che roba sarà. Ma la curiosità è grande, tenuto conto che finora — salvo errori — l’omaggio a Joyce in campo musicale consiste in un trattamento elettronico del suono di una «s » tratta dalle fitte pagine dell’Ulisse. Bisognerà rivolgersi a Giorgio Melchiorri, che è un esperto di Joyce e del funambolismo, e scrive libri in inglese tradotti poi in italiano.
Emozionante, invece, una piccola prova della Traviata che Luchino Visconti sta preparando su misura per il Teatro Nuovo e per il soprano Franca Fabbri, a quanto pare una folgorante rivelazione.
Con Verdi non si può isolare una nota da un seguito di battute, né una consonante dalle altre che formano la parola. Bisogna far tutto come Dio comanda, senza scorciatoie, e parola d’onore stando lì, in agguato, alla stupefazione della minuziosa prova se ne aggiungeva un’altra: quella cioè dei nostri ufficiali teatri lirici i quali appunto si rovinano e rovinano tutto, sfoderando cartelloni con due dozzine di opere. Si vede poi quel che succede. Qui si lavora da un mese e alla Traviata non si può ancora infilare sul capo la bandiera, come si fa nei cantieri per la copertura del tetto, che lascia però ancora indifeso tutto il resto.
Dunque, Violetta l’abbiamo sorpresa nella casa di campagna. Una stanzetta senza lussi, linda e tirata a calce, con un arredamento semplice, di elegante modestia. Era al lavoro — o meglio, era lavorata — nel momento successivo alla rinunzia ad Alfredo promessa al vecchio. Germont, dopo l’indugio sul mare e sul suolo di Provenza. Seduta al tavolino, mentre con il fazzoletto trattiene lacrime e singhiozzi, scrive il biglietto ad Alfredo. Anzi, i biglietti. Infatti ne scrive moltissimi, e di fazzoletti chissà quanti ne morde. La scena si ripete più volte, ma assistiamo al laborioso processo durante il quale una cantante può finalmente diventare una donna viva, vera, innamorata, ma sopraffatta dalle finzioni della società. Ogni suo gesto viene meticolosamente impastato alla musica, che per ora è soltanto quella d’un pianoforte, naturalmente malconcio come tutti i pianoforti che debbono servire a qualcosa. Insomma, la povera Violetta, scrive e piange, tante volte quante ne richiede il suo angelo custode, Luchino Visconti, implacabile come un inquisitore, inflessibile nell’enucleare da questa scena la verità di Violetta, senza più nemmeno l’ombra di un melodramma ottocentesco.
Il regista fa anche il direttore d’orchestra: incita le ansie del pianoforte e accentua il gesto quando alla musica deve corrispondere il brivido, il tremore, l’angoscia, tutto il cumulo dei sentimenti. Fra poco, dovrebbe esplodere l’amami, Alfredo. Ma ce ne vuole prima che sia tutto a posto nel sobbalzo di Violetta sul « che fai? » pronunciato da Alfredo e nell’abbraccio dei due innamorati. Visconti adesso li tiene d’occhio come un arbitro quando sorveglia i pugili nelle strettoie del corpo a corpo, ma un arbitro che vuole colpi bene azzeccati. Sicché l’amami, Alfredo sarà davvero il vertice d’un crescendo minuziosamente e tumultuosamente irrompente, come se al pianoforte, anziché una segaligna pianista, sedesse Verdi con la gran barba infiammata, le guance rosse, e gli occhi lucidi, infuocati.
Sarà, vedrete, la più bella celebrazione dei centocinquanta anni di Verdi. Questo forse si può dire, nessuno se l’avrà a male. Ma si poteva dire anche il resto. Dopotutto, non siamo noi gli estranei ai quali è vietato l’ingresso ai lavori. Intanto, per la « prima » di giovedì prossimo il teatro è già esaurito. Con la gente che protesta, perché non ha mai saputo da quando erano in vendita i biglietti.
Erasmo Valente