Festosa serata inaugurale al Teatro Nuovo
Bravissima Franca Fabbri, interprete di Violetta, ma nel complesso inadeguata la realizzazione musicale alla magnificenza della regia e delle scene

Spoleto 20 giugno 1963

Quando sarà stampato anche in fotografia il ricordo di questa commossa prima serata del VI Festival dei due mondi, si scorgeranno ancora una volta le signore (ma non soltanto esse) con i fazzoletti sotto il naso, tra il pubblico in piedi, generoso nell’acclamare alla ribalta del Teatro Nuovo i protagonisti d’una splendida Traviata. Luchino Visconti, cioè, il più straordinario interprete dell’opera (avrebbe dovuto impugnare anche la bacchetta e dirigerla, ma si è « accontentato » d’una superba realizzazione scenica e d’una memorabile regia) e Franca Fabbri — Violetta — protesa fino allo spasimo (ma ingurgita quattro uova, e mezzo di quello buono tra un atto e l’altro) nella conquista di questa serata. C’è riuscita, pur se la resa vocale non ha uguagliato il risultato scenico, Il che forse — e non è per metterci una pezza — ha reso con maggiore trepidazione la remissività e l’accettazione del sacrificio.

L’altra serata che finì a pianticello liberamente abbandonato fu quella della Bohème di Puccini. L’accostamento non è casuale, né esteriormente determinato dalle lacrimucce del pubblico, comuni ad entrambe le opere, ma deriva dall’affascinante, geniale penetrazione della Traviata compiuta da Luchino Visconti, il quale, appunto, sembra aver voluto presentarci il rovescio della medaglia Bohème, e cioè l’altro aspetto — quello aristocratico — della società parigina intorno al 1850.

Nella Bohème l’umore coinvolge, infatti, i diseredati, nella Traviata invece la ricca borghesia ed e l’elemento che avvicina, con le sue gioie e con i suoi dolori, il cuore di Violetta a quello di Mimì, Manco a farlo apposta, d’altra parte, tra La dama delle camelie di Dumas (1852) e Le scene della vita di bohème di Murger (1851) passa sì e no un anno, e a Visconti la cosa non è sfuggita. Se accanto al più lussuoso letto di Violetta sì stendesse il lettino di Mimì, non succederebbe nulla di strano: morirebbero a braccetto, in un unico desiderio di vita e di calore. Non è un caso che persino la stanza ideata da Visconti per la morte di Violetta adombri la soffitta di Mimì. Soltanto, questo sì, ed è il limite dello spettacolo, le due opere non coincidono nei risultati musicali.

Il giovane direttore d’orchestra, Robert La Marchina, che ha rimpiazzato Thomas Schippers impegnato a Bayreuth per i Maestri cantori di Norimberga, ha infatti un pò meccanicamente orecchiato la Traviata musicalmente modellata da Toscanini, prescindendo si direbbe (e, al contrario, soprattutto di questo doveva tener conto) dall’idea della Traviata realizzata da Visconti. Così è successo quel che si lamenta talvolta (assai spesso, per la verità) negli spettacoli di balletti, quando la musica — fosse pure un capolavoro — rimane in limiti strettamente funzionali, senza avvolgere, riscaldare, illuminare quel che avviene sulla scena. L’inconveniente, fastidioso nelle faccende della danza, è inammissibile in un’opera lirica, pur ritenendo che la stupenda regia di Visconti conferisce allo spettacolo un interno ritmo di danza, minuziosamente ricercato e plasticamente sbalzato dai valori musicali dell’opera.

Anche il taglio delle scene, ciascuna con il suo appropriato colore, segue fino in fondo il timbro della musica. Il primo atto è obliquamente traversato da danze e da brindisi, e Visconti obliquamente taglia la scena, bellissima, con la parete che divide a metà il palcoscenico nella sua larghezza e lascia intravvedere dalle porte sormontate dal rosso cupo e incombente dei tendaggi il seguito di salotti.

Il movimento delle figure scorre con una magia scenica tanto più sorprendente in quanto non si avvale di elementi esteriormente innovatori, ma è il risultato di un lungo, appassionato lavorio effettuato all’interno della musica. Nel primo atto della Traviata non avevamo ancora visto luci, lampade, lampadari così storicamente ricostruiti anche per quel che riguarda il timbro della luce. Tutto in ordine, dunque, come in una ricca casa di cent’anni fa, non conservata intatta come un museo, ma ricca di vita e di cose. Basterebbe soffermarsi sulle mobili ombre proiettate da fuoco vero del caminetto.

Il fuoco è in Visconti un vitale elemento di verità scenica. Nel primo atto c’è un caminetto e la fiamma quasi lambisce Violetta in un presentimento di minaccia. Nel secondo atto c’è una stufa. Una stufa di campagna adatta ad una casa di campagna, protetta dal verdescuro di tende pesanti e riposanti. A scostarle o ad aprire una porta (ed entra in scena un contadino, non un maggiordomo) irrompe bianca la luce del giorno.

Nella stanza dell’ultimo atto c’è ancora una stufa con una fiammella: quel che rimane dell’incendio che ha consumato Violetta. C’è una luce sommessa, color nocciola, delicatissima. La luce del giorno traspare da una finestra del fondo, ma sembra luce spenta, morta, inutile.

Nel terzo atto si registra un culmine della sapienza inventiva e realizzatrice del regista. Una stanza dalla parete ricurva, opaca, con tende d’un bel giallo. Qui si svolge la festa e qui irrompono con bellissimo gioco di danze, zingarelle e picadores finalmente, una volta tanto, graditissimi e bravissimi. In tutti questi ambienti Violetta si muove come in una prigione, sbattendo alle pareti, quasi nell’ansia di sfondarle. Ma nella scena dell’offesa (Alfredo le getta in faccia i soldi) muore veramente Violetta, ed è qui che la frivola allegria d’una società folleggiante ha un trasalimento. C’è il concertato e Visconti ferma l’azione in un raggelamento di gesti di straordinaria portata espressiva. Il canto nasce da questa profonda immobilità, palpitante tuttavia attraverso lo splendore dei costumi. È un concertato anche di colori, anche di elementi scenici, senza però che nulla abbia il sapore di teatralità o quanto meno di melodramma.

Prevale nel personaggio un tono intimo, quasi di confessione con se stessi, di ricordo d’altri tempi, che purtroppo sfugge alla realizzazione musicale. Quindi, non tanto una lezione, ma un saggio davvero vertiginoso della sbaragliante bravura di Visconti. Il maestro La Marchina ne è stato la prima vittima, per quanto non sia tutta da sottovalutare la sua prestazione. Seguono nel sacrificio le voci, non scarse certamente come quelle del coro, ma appunto inadeguate alla sicurezza e alla magnificenza scenica dello spettacolo. Andrebbe qui, forse, tirata in ballo la mitologia con i numi che si mangiano i figli dopo averli messi al mondo. A tale orribile sorte ha però resistito, come dicevamo, la Franca Fabbri, temperamento di prim’ordine, vibrante, acceso, vivido di slanci, pronto alle inflessioni più sottili. Una Traviata così la impegna nei riguardi del teatro lirico con un rigore sovrumano. Guai, adesso, a cedere ad allettanti tentazioni. Eccellenti Franco Bonisolli (Alfredo) e Mario Basiola jr (il vecchio Germont): due cantanti applauditissimi anch’essi, puntualmente, al termine delle famose arie.

Nel successo rientrano i meravigliosi costumi di Piero Tosi e Bice Brichetto.

Ottima l’orchestra sinfonica siciliana che avrà forse provato poco: commosse e interminabili le chiamate a Luchino Visconti e a tutti gli artifici dello spettacolo.

Pubblico da grandi occasioni, non più mondano di quello che normalmente riempie una serata di gala, e per l’occasione punteggiato anche dalla presenza di divi e dive del mondo cinematografico e teatrale.

Erasmo Valente