Signor direttore,
ora che, ben finito il doppio maggio fiorentino, la effimera ma tutta praticabile Troia medievale — arieggiante le architetture di Capri — sta, fortunatamente non tra le fiamme, dissolvendosi sulla bella altura di Boboli, e le contrapposte cavalleresche tende dei greci sono già smontate, e Pandaro, non più di scena, sogna forse un’altra guerra di Troia, o non di Troia, per esercitare la sua vocazione di fornitore di « segnorine » a combattenti timidi, permetta che su codesto spettacolo finale del doppio mese d’arte e di festa, epiloghi brevemente uno spettatore qualunque. Tale mi piace essere; un vecchio frequentatore di teatri, chiusi e aperti, vecchio ma ingenuamente sempre incantabile da questo meraviglioso giuoco per ragazzi di tutte le età che è, e spero resti sempre, il teatro, uno che legge i giudizi dei competenti critici teatrali, ma il teatro se lo gode dalla platea, o magari dalla galleria, uno dei tanti che fanno la cassa di risonanza, senza di che la creazione del drammaturgo e la ricreazione degli attori restano mute.

Tale essendo, dopo le sette o più rappresentazioni notturne di « Troilo e Cressida» nel parco già incantato di Boboli, mi domandavo com’è stato che un così ben montato spettacolo, con il concorso riunito dei più valenti e simpatici attori del nostro teatro contemporaneo e di bene ammaestrati e bardati cavalli, con tanta fantasiosa e solida costruzione di scena, con non meno fantasiosi e lussuosi costumi, con tanta realizzata grazia scenica di Dio, questo spettacolo non è riuscito a far la presa che ci si sarebbe aspettata. Soltanto perché dopo mezzanotte, mentre ancora il terzo tempo aveva da cominciare, faceva fresco sotto le stelle e i riflettori, e anche il calore consenziente del pubblico si abbassava? Ma l’anno passato, con temperatura non più estiva, l’altra fantasia shakespeariana della « Tempesta» nello stesso bel parco fiorentino, prese davvero il gran pubblico, quello che non cerca nel teatro sottili intenzioni, che non ha preparazione dottrinale o snobistica per spettacoli « di eccezione », ma se una bella invenzione teatrale gli si manifesta in visione, in voci e in emozione ci si abbandona con gioia; e per la « Tempesta » il pubblico della città e della provincia crebbe di sera in sera. E anche l’ombra di Shakespeare si compiacque che il suo ultimo sogno di poeta fosse così risognato a Firenze.

Questa volta lo stesso Shakespeare… Ringrazierebbe certo Luchino Visconti, suo libero regista, di non aver risparmiato ingegno e mezzi per onorare di un’edizione di lusso la ambigua tragedia (o commedia, o a volte farsa e a volte quasi circo equestre?) di « Troilo e Cressida », ma dovrebbe domandarsi perché il resultato non abbia corrisposto all’ardua intenzione. Forse perché la tragicommedia che già in Shakespeare è un travestimento dell’Iliade (ma non sempre: Nestore e Ulisse vi fanno lunghe e fiorite dissertazioni politico-morali per eroi e principi veri), è risultata travestimento di un travestimento? No, dato il testo qual’è, il regista non poteva non dare i sapori differentissimi di cui il bizzarro grande poeta questa volta ha fatto la sua poetica cucina.

E allora com’è che lo spettatore comune, ammirata per un primo tempo la città praticabile e i caracollamenti fra il ponte levatoio e le tende, ascoltata con piacere piccante la impostazione del duetto amoroso Troilo-Cressida che lo zio Pandaro, benigno e maligno, stringe, seguite le presentazioni degli eroi di scena, e i primi gracchiamenti di Tersite, al secondo tempo rimane distratto fra i quadretti scenici e le musiche, successivamente apparenti sulle terrazzine e i giardinetti di Troia, e le divagazioni, ciascuna in sé bella e pomposa, e i ripicchi dei re greci, com’è che lo spettatore si divaga, perde il filo, sente calare l’interesse? Non gli fa più nemmeno effetto l’intermittente turpiloquio che in questa tragicommedia shakespeariana è più abbondante che nelle altre, e il regista e gli attori di questa edizione ci insistono, da darle un certo sapore di modernità esistenzialista. Una parolaccia, detta in un momento s’incide, è forza. Troppe parolacce perdono vigore anche per le caste orecchie alle quali specialmente si rivolgono, domandando l’ applauso che va sempre ai birichini.

Proprio non saprei; ma l’effetto scenico di questo « Troilo e Cressida » resulta decrescente, mentre Lei sa che da Sofocle in poi il teatro vitale vive di successione crescente. Se dovessimo ascoltarlo come un commento semiburlesco fatto da Shakespeare al mondo omerico — ma tali commenti si rivolgono a pubblici particolari, non alle masse per cui si fanno con grossa spesa gli spettacoli all’aperto — allora un frequentatore di teatro preferisce, Dio gli perdoni, la « Belle Helène », o su un piano di alta intellettuale amarezza, « La guerre de Troie n’aura pas lieu » di Giraudoux. Da « Troilo e Cressida » non vien fuori nessuna lezione di pacifismo o d’altro (il pessimismo fondamentale di Shakespeare, come di tutti i geni, raffigura, interroga, non dà lezioni alla vita né alla storia).

Quel tedio, ammirante ma tedio, che prende lo spettatore comune della lunga divagante vicenda di «Troilo e Cressida » sarebbe stato evitato se il regista avesse avuto l’audacia che avevano i nostri interpreti ottocenteschi di Shakespeare, di tagliarlo, oltre che di sbarocchirlo? Ma il regista moderno questa non la ha. Tra il rispetto al pubblico e quello al testo prescelto egli obbedisce al secondo, Anche nel caso in cui il testo shakespeariano sia, come «Troilo e Cressida » quello di uno dei suoi drammi teatralmente meno felici e più lunghi. Diceva, mi pare Orazio, che qualche volta anche il grande Omero sonnecchia: in questa tragicommedia omerica forse anche Shakespeare ha — mi si perdoni la bestemmia di uomo di platea — sonnecchiato. E allora perché proprio « Troilo e Cressida » doveva essere scelto per lo spettacolo fiorentino all’aperto? All’aperto: e qui lo spettatore comune avrebbe da fare alcune considerazioni generali sui non molti drammi che sono nati per l’aperto e sui moltissimi che è bene lasciarli al chiuso, anche se il regista non vi ha tutto lo spazio in cui sfogare l’arte sua.

Ma questa lettera è già troppo lunga. Mi scusi.

Uno del pubblico pagante.

Firenze, Luglio 1949