Mosca Luglio 1961

La disputa se l’arte debba essere «ottimistica» o «pessimistica» è una disputa priva di senso. In generale, quando si tratta di isolare uno qualsiasi dei sentimenti umani facendo di esso uno schema immobile dentro il quale dovrebbe conformarsi tutta la realtà, si commette un grave attentato alla complessità della vita, si esce cioè dalla realtà. E poiché, come é noto, l’arte è, per sua natura, rispecchiamento della realtà, si esce dalla possibilità di fare arte.

In quanto rispecchiamento della realtà, l’arte è una delle forme di conoscenza a disposizione dell’uomo; ma poiché non esiste vera conoscenza che non sia, al tempo stesso, trasformazione e superamento di ciò che esiste, anche la conoscenza artistica, per essere valida, deve poter contribuire alla trasformazione del mondo; in una parola: deve essere critica. Se un’opera letteraria, cinematografica, teatrale o figurativa, lascia le cose al punto in cui sono, senza penetrarle criticamente, vuol dire che non le ha neppure conosciute; se non le ha conosciute, non ha potuto rispecchiarle; se non le ha rispecchiate, non ha raggiunto un valore artistico.

I dogmatici del pessimismo: e i dogmatici dell’ottimismo appartengono, a mio avviso, a due avverse ma consimili categorie di deviatori della realtà e conviene abbandonarli ai loro scontri senza via di uscita.

Avrete capito che io sono avversario di ogni concezione strumentale e subalterna dell’arte; di conseguenza penso che l’artista, proprio per non ridurre il suo lavoro a qualche cosa di servile e di bassamente utilitario, deve essere, prima di tutto, un uomo tra gli altri uomini, e, in secondo luogo, un cittadino di elevata coscienza civile e rivoluzionaria, un dirigente politico e sociale, insomma, che, con i suoi mezzi specifici, concorre a formare il processo storico e si rivolge a milioni e milioni di uomini. L’artista che si ritiene soltanto un maestro di esercizi formali o soltanto un soddisfatto e angosciato contemplatore di se stesso, si riduce, per sua volontà, ai margini della vita sociale e permette a chiunque di scambiarlo per un altoparlante utilizzabile per molti usi.

Direi che se c’é un punto in cui l’artista moderno si differenzia, e deve differenziarsi, dall’artista del passato (e per passato intendo l’epoca storica anteriore alla rivoluzione socialista) è proprio questo: che l’artista moderno gode di condizioni storiche e culturali, di conoscenze teoriche e di esperienze pratiche che esigono da lui una nuova consapevolezza del ruolo dell’arte nella società e nella storia.

Ciò vale, a mio avviso, tanto per l’artista che vive in una società liberata dalla dittatura del capitale, quanto per l’artista che vive in una società ancora capitalistica. Il che significa che la presenza operante della coscienza socialista e oggi, dovunque, una delle condizioni della creazione artistica.

Quando parlo di coscienza socialista parlo, ovviamente, di una concezione del mondo materialistica, storicistica e laica, non di una particolare tematica. Si può cantare con coscienza- socialista un puro e semplice moto del cuore, come una complessa vicenda politica e sociale. Si può esprimere con coscienza socialista il momento del dolore e della contraddizione più atroce, come il momento della gioia e dell’armonia più consolante. L’essenziale è che la coscienza socialista sia vivente come il sangue stesso che scorre nelle vene dell’opera d’arte e non sia mai una formula ipocrita, appiccicata sull’opera d’arte come una etichetta.

È giusto e comprensibile che, nella società capitalistica, l’artista tenda ad inasprire il momento del suo antagonismo col sistema, ma egli avrà mutilato la sua opera se quell’antagonismo si trasformerà in sfiducia distruttiva nella vita e nell’uomo. È pero altrettanto vero che, pur non esistendo, nella società socialista, contraddizioni antagonistiche, l’artista che in essa opera e vive non avrà fatto opera creativa se non avrà vissuto dall’interno tutti i complessi problemi politici e morali del suo vivere, se non avrà conservato un atteggiamento critico e rivoluzionario, e se avrà trascurato l’inesauribile fonte di ispirazione che, tanto più in una società senza classi è costituita dalla esistenza di milioni e milioni di vite individuali.

Che senso ha, dunque, la disputa fra «ottimisti» e «pessimisti »? Il problema é un’altro: quello della tendenza sociale e umana dell’opera d’arte, quello del suo asse ideologico. Può esservi un’opera assolutamente ottimistica nell’apparenza, ma carica di sostanza reazionaria nel suo contenuto ideologico. È il caso di innumerevoli storie del cinema holliwoodiano, come di moltissimi film del cosiddetto «neorealismo rosa» italiano. Può esservi un’opera d’arte carica di dolore e di pessimismo nella condotta dei suoi personaggi, ma ricca, nella sua sostanza, di una rabbiosa volontà di uscire dal buio e dall’angoscia in cui quei personaggi si sono venuti a trovare per ragioni obiettive e soggettive. È il caso di molti tra i migliori films giapponesi del dopoguerra. Non so se ci sono sempre riuscito, questo e stato il mio stesso intento in films come La terra trema, Senso, Rocco e i suoi fratelli.

Mi pare che un esempio di pieno superamento del falso dilemma tra «ottimismo» e «pessimismo» sia stato fornito recentemente dal film Cielo pulito. Esso narra una storia carica di alta tensione drammatica. Il dolore dei suoi protagonisti raggiunge i limiti della sopportabilità. La condanna che esso esprime contro tutto ciò che si presenta come sopraffazione dell’uomo e del suo insostituibile valore, non ha mezzi termini. La forza che i suoi protagonisti riescono a trovare promuovendo uno slancio ideale che troverà eco e risposta in tutta la società, rimette in luce ciò che era stato posto in ombra e rivaluta il semplice cittadino sovietico contro chi aveva rischiato di umiliarlo. È una storia dolce e amara, triste e gioiosa. Alterna, a momenti di speranza, momenti di disperazione. Ma soprattutto e priva di ogni retorica verniciatura poiché Ciukrai ha saputo cantare il sentimento nuovo della responsabilità e della consapevolezza socialista rifacendosi, senza forzarli, ai dati tipici di una reale esperienza. Chi potrà mai dire se lo straordinario velo di sorriso e di pianto che passa come una ventata sul volto della protagonista mentre ella ricorda, nel breve giro di dieci minuti, otto anni tempestosi, è «pessimista» o «ottimista»? Chiunque dovrà, però, riconoscere, in quel sorriso e in quel pianto, i segni inconfondibili della fermezza umana vittoriosa, in modo tale che la vittoria di due semplici cuori si presenta come la vittoria stessa della verità. Felice il regista che ha potuto svolgere un simile tema in creativa collaborazione con la società nella quale egli vive.

Luchino Visconti