Una intervista di Giovanni Calendoli a Luchino Visconti

Roma, gennaio 1949

Luchino Visconti, dopo una lunga evasione cinematografica, è tornato alla scena di prosa, per riprendere il discorso interrotto al principio del 1947 con Euridice di Jean Anouilh.

Lo spettacolo, che il più discusso regista della nuova generazione italiana aveva pazientemente intessuto su quel testo ricco di ricorsi al più facile teatro francese e insieme di fantasiose aperture liriche, non poteva non lasciar perplessi quanti cercavano di chiudere l’artista in una formula, riferendosi anche alle sue precedenti esperienze.

Il primo spettacolo di Luchino Visconti, I parenti terribili di Jean Cocteau (1945), era nato sotto il segno di una disperata ricerca della verità condotta con un accanimento la cui tensione non di rado si scioglieva in una atmosfera di equivoca morbidezza. La verità alla quale il regista mirava non era davvero una verità convenzionale ed astratta che riconoscesse le frontiere della morale: abitudinaria: era la verità totale con i suoi errori e con le sue deviazioni, con i suoi accenti segreti e con le sue riserve inconfessabili. I rapporti fra gli individui erano scavati fino al limite ultimo oltre il quale si apre la zona maledetta del peccato originale. (Così nella famosa commedia del Cocteau, il rapporto di Yvonne con il figlio Michele era sottilmente analizzato fino al punto in cui l’amore materno volgeva verso l’incesto pur senza divenirlo dichiaratamente).

Molte delle discussioni alle quali fin da allora la regia di Luchino Visconti ha dato luogo sono state provocate appunto dalla sua ricerca ostinata della verità, che appariva come un compiacimento per lo scandalo se era osservata secondo le regole di un codice morale corrente. Ed allo scandalo si gridò non tanto per I parenti terribili quanto per Adamo di Marcel Achard (1945). Ma purtroppo per gli uomini non esiste mai un’autentica e scoperta verità senza scandalo, soprattutto in un’epoca che, come la nostra, sia tutta mossa dal demone dell’ingiustizia e del male.

Il problema dell’arte di Luchino Visconti in realtà era un altro, e cioè se in questa ricerca della verità egli potesse trovare una espressione lirica rispondente alla sua personalità oppure soltanto una esperienza destinata a svilupparsi gradatamente ed a sfociare infine in altre affermazioni di natura sostanzialmente diversa.

Già in certe impennate inattese ed in certe improvvise schiarite che illuminavano come lampi l’atmosfera ossessiva de I parenti terribili, poteva intravedersi un desiderio di evasione dalla pura descrizione, limitata ad un tono cupamente realistico. Ma l’evasione non era ancora compiuta, perché si risolveva spesso in un inconsapevole riecheggiamento del melodramma o della tragedia borghese. L’ossessione della verità, quella ossessione alla quale Luchino Visconti ha intitolato la sua non dimenticata opera cinematografica, incatenava il regista, lo rendeva schiavo, tenendolo lontano da un’espressione liberamente poetica che in lui tuttavia fremeva come un fuoco sotto la cenere.

Guardando oggi in prospettiva la serie delle regie di Luchino Visconti (oltre I parenti terribili e Adamo, La Quinta colonna di Ernest Hemingway, La Macchina da scrivere di Jean Cocteau, A Porte chiuse di J. P. Sartre, Antigone di Anouilh, La Via del Tabacco di E. Caldwell nel 1945, Il Matrimonio di Figaro del Beaumarchais, Delitto e Castigo nella riduzione di Gaston Baty, Zoo di vetro di Tennesse Williams nel 1946, Euridice di J. Anouilh nel 1947) appare evidente come la sua sofferenza per essere prigioniero di una verità, che rischiava di concludersi nel documento, e il suo anelito di evasione verso un’espressione puramente lirica si siano fatti sempre più insistiti e struggenti. A questo proposito molto indicativo è proprio l’ultimo spettacolo di Luchino Visconti, prima della sua attuale ripresa, Euridice, nel quale tutte le possibilità di suscitare un clima poetico oltre il segno preciso di ogni riferimento veristico erano sfruttate con singolare impegno. Chi non ricorda, ad esempio, la scena della stazione, nella quale Euridice si allontana per il grande viaggio? Tutti i dati realistici sui quali il regista si era ostinato — l’atmosfera polverosa della sala d’aspetto, il sibilo del treno, il giuoco delle luci sui binari — improvvisamente divenivano elementi di una favola, mentre il passo di Euridice si faceva lieve e irreale come in un sogno.

Luchino Visconti aveva già superato i termini della ricerca di una verità realisticamente intesa, per tendere senza alcuna riserva alla conquista del puro elemento fantastico, cioè di una verità poetica. Quale nuova indicazione offriranno gli spettacoli più impegnativi che egli allestirà nella sua nuova stagione iniziatasi lo scorso mese al Teatro Eliseo di Roma?

A tal proposito abbiamo voluto chiedere allo stesso regista se la presenza di due classici, Shakespeare e Alfieri, per la prima volta segnalata nel suo nuovo repertorio, fosse casuale oppure logicamente voluta.

— Logicamente voluta — ci ha risposto Luchino Visconti —. Dopo aver saggiato una letteratura drammatica rispondente ai problemi del nostro tempo ed alla sua cronaca, sono giunto ai classici. Solo in un testo classico, nel quale l’espressione delle passioni umane sia decantata e ridotta alla sua essenza, è possibile trovare la materia per una ricerca di spettacolo libera da ogni presupposto polemico…

— … che divenga perciò pura poesia, poesia dello spettacolo in quanto tale.

— Esattamente! Sono tornato ai testi classici perché solo questi consentono un teatro inteso in senso classico come sintesi di tutte le arti: parola, musica, canto, danza in un clima di fantasia secondo un ritmo unitario.

— Quindi non più ricerca della verità in quanto tale, ma ricerca del ritmo teatrale? — abbiamo soggiunto.

— Sì. Ricerca di un ritmo che si realizzi nella fantasia, ma in una fantasia non convenzionale, non artefatta… in una fantasia che dalla realtà parta, attingendo ad essa le sue linfe vitali, la sua forza poetica, la sua sostanza emotiva…

— La ricerca della verità intesa in senso realistico non è stata perciò inutile; è stata una premessa…

Luchino Visconti tace. Egli ormai non è più «un moins que quarante ans». Ha varcato il capo di buona speranza della maturità ed è nel pieno possesso dei propri mezzi. Le prove che egli si prepara ad affrontare, sono forse le più impegnative della sua intera carriera di regista. È finito il tempo delle esperienze; deve incominciare adesso quello delle realizzazioni ed egli ne è consapevole.

Giovanni Calendoli

Un pensiero riguardo “La via di Visconti dall’ossessione al ritmo

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