Maria Callas e Luchino Visconti, prove de La Vestale, Teatro alla Scala, dicembre 1954, foto Erio Piccagliani.

L’autore di La terra trema non è soltanto un rinnovatore nel campo del cinema e in quello del teatro di prosa: la regia viscontiana si pone anche al centro dell’odierna ricerca di un riscatto del melodramma dagli antichi retaggi. Essa si preoccupa di ricondurre l’opera alla sue specifiche strutture teatrali e musicali, e su questa base affronta e risolve di volta in volta il problema drammatico vero e proprio.

Gennaio-Febbraio 1959

Due criteri direttivi sembrano guidare in generale Luchino Visconti impegnato nella regia di un testo melodrammatico, sia esso la neoclassica Vestale di Spontini o la romantica Anna Bolena di Donizetti. Da una parte egli si preoccupa di ricondurre molto chiaramente l’opera nelle sue specifiche strutture teatrali-musicali; dall’altra, su questa base, affronta e risolve il problema drammatico vero e proprio. In entrambi i casi l’intervento registico si opera contemporaneamente sulla musica e sul libretto, tenendo esattamente conto dell’una e dell’altro in reciproca funzione, nel senso che è pur sempre la musica a essere la prima ed estrema istanza su cui si sconta la circolarità degli elementi costitutivi di un melodramma. Ci spieghiamo meglio.

L’Anna Bolena, poniamo, è un’opera a forme chiuse, ossia la sua struttura è caratterizzata dall’alternarsi di recitativi e arie, recitativi e romanze, e duetti e concertati, ciascuno con una precisa responsabilità espressiva nell’economia drammatica dell’opera. È noto che il melodramma romantico usò molto liberamente di questo schema, e che tuttavia generalmente lo praticò fino alla riforma wagneriana o, da noi, all’ultimo Verdi (benché poi la scuola verista non l’abbia mai tradito del tutto); ma è altresì noto che col decadere dell’esecuzione musicale a tutto vantaggio dell’esibizionismo vocale fine a se stesso, il senso dei rapporti fra recitativo e romanza (o concertati) andò completamente perduto, travolto il primo dell’interesse virtuosistico per il secondo. Né l’energico intervento toscaniniano per ristabilire un equilibrio musicale e acquetare le burbanzose pretese dei cantanti, fu sufficiente a restituire il melodramma al suo senso originario, poiché appunto trattandosi di un intervento esaurito nel fatto musicale, lasciava scoperta, affidata a se stessa, la scena, che finì dunque con l’essere di nuovo la palestra di una vocalità, benché rigorosa e autentica, non inserita però nella complessa unità del fatto melodrammatico. Ora, invece, Visconti propose sùbito la sua originalità nel campo della regia d’opera, restituendo al melodramma la sua dialettica strutturale, e impostando all’interno di essa ogni altra decisione interpretativa: Visconti che riporta soprano e tenore in proscenio, a un colloquio sentimentale e ideale diretto con il pubblico, e dunque li stacca decisamente dal contesto drammatico che intanto in scena recitativi, ariosi, declamati vanno tessendo, non fa altro che realizzare nella maniera più fedele il senso romantico — poiché qui alludiamo all’Anna Bolena da cui siamo partiti — della forma chiusa musicale; e nello stesso tempo, come non potrebbe non essere, dà addirittura alla base spettacolare dell’opera l’impronta di un assoluto rigore storico e, diciamo così, filologico.

Ricordiamo tutti il celebre, vigoroso, trascinante avvio di Senso, con Manrico che canta, a tu per tu con la platea, il piede spavaldamente calcato sulla conchiglia del suggeritore, Di quella pira. Se mai è stata data una definizione sintetica, un’immagine immediatamente pregnante, del rapporto sociale e artistico, della spiritualità insomma del melodramma romantico, di quello verdiano romanticamente nazionale-popolare in particolare, allora questa definizione è lì, in quel felice prologo al film risorgimentale di Visconti. Cioè, in breve, Visconti propone un definitivo riscatto dell’opera dalle deformazioni vocalistiche e da un rigorismo puramente musicale, e non già negando il cantante, che è poi pur sempre l’« eroe» del melodramma, ma riportandolo al suo primo piano, purché inserito in una proporzione narrativa esattamente osservata: ossia Visconti valorizza in maniera uguale e contraria romanza e recitativo, e quindi alla fine ristabilisce l’importanza della trama, della vicenda, del dramma, del teatro, quindi dà al pubblico non più una successione di « belle » pagine, ma il dibattito delle cose e dei rapporti umani nella forma caratteristica del melodramma in cui si ritrovano. Naturalmente questo significa altresì che se si tratta, invece dell’Anna Bolena, della Vestale, sarà il grand’opera parigino nell’epoca napoleonica che dovrà essere impostato nelle sue specifiche strutture, come via obbiettivamente sicura per giungere alle essenze, artistiche, sociali, storiche, del teatro spontiniano.

Questa la novità di fondo della regia viscontiana; e, ci pare, anche il suo più solido e valido apporto alla rinascita dello spettacolo melodrammatico che in questo dopoguerra sì va compiendo in virtù dell’irruenza, sulle sue scene, della figura del regista. Inoltre, anche rispetto alle più ricche tradizioni registiche straniere, per esempio quella tedesca, questo apporto viscontiano è senza dubbio quello che ha migliori probabilità di costituire un’alternativa italiana tout-court, non soltanto perché si esercita, secondo la naturale vocazione del regista, essenzialmente sul nostro melodramma, ma perché verso di esso si atteggia in maniera obbiettiva, fuori d’ogni soggettivistico avanguardismo, in una ricerca critica storicamente e filologicamente fondata, che è anche il più vero denominatore comune delle più genuine forze culturali nazionali di questi anni. Si pensi soltanto che cosa fu il pur pregevolissimo Macbeth del regista tedesco Gustav Gründgens, al Maggio Fiorentino del 1951, e che cosa è stato il Macbeth di Visconti al recente Festival di Spoleto. L’impianto verdiano di quest’ultimo è fuori discussione, quali che siano le riserve che alla regìa viscontiana si possano avanzare; mentre l’impronta espressionistica del primo, intelligente, coraggiosa e suggestiva, è però dal principio che lascia perplessi. Ovvero resta pur sempre sul piano della soggettività.

Ma i limiti di Visconti regista d’opera ci sono anch’essi. Gli stessi, e gli stessi pericoli, che gli riconosciamo nel cinema o nel teatro di prosa. Quando cioè, nella chiarezza dell’impianto drammatico, la sua regia costruisce e articola il dramma, costruisce i personaggi, manovra le masse che, ricordiamo, nell’opera occupano sempre un posto principale, l’individuazione critica rischia talvolta di divorare se stessa, nel senso che la prodigiosa cura del particolare dietro cui si scopre la presenza di un gusto raffinato fino al piacere della bella calligrafia, può distogliere l’attenzione dal contenuto operistico, e provocare invece l’ammirazione per lo spettacolo. Ciò, si badi, è nelle regie di Visconti soltanto un’ipoteca sul nucleo vero e proprio dell’interpretazione: infatti non ci pare che finora Visconti abbia abdicato a un’impostazione puramente edonistica e spettacolare. Gli ultimi suoi lavori, l’Anna Bolena e il Macbeth proverebbero piuttosto il contrario, e anzi in certo senso l’Anna Bolena è stata un passo in direzione opposta rispetto a un’opera come La Traviata, che pure resta per noi il capolavoro di Visconti regista d’opera. Forse anche perché in essa ogni sua tendenza s’è manifestata in pieno, ma nella presa inequivocabile dell’espressione verdiana, come regia che si plasma sulla forma musicale per renderne adeguatamente il contenuto.

Maria Meneghini Callas e Luchino Visconti
Maria Callas e Luchino Visconti, La Traviata, Teatro alla Scala, maggio 1955, foto Erio Piccagliani

Con estrema libertà — ma certamente memore del fatto che Verdi aveva pensato polemicamente la protesta di Violetta in costumi moderni, e solo dopo la burrasca veneziana sì arrese a mimetizzarla con vesti antiche —, Visconti ha dato alla Traviata un’ambientazione “secondo impero” che rispondeva da un lato alla tradizione crepuscolare della Dame aux camélias, e dall’altra garantiva una più immediata suggestione di contrasti, sociali e morali e di costume tipicamente borghesi, quindi uno sfondo ideale sul quale poter disegnare sotto la guida della mano verdiana la violenta accusa al conformismo, all’arretratezza, alla disumanità feudale. Una soluzione che gli offriva oltre tutto l’ottima occasione di sbrigliare un preziosismo scenografico e d’allestimento tout-court finora sconosciuti ai palcoscenici lirici (almeno dai tempi del « meraviglioso » scenico dell’età barocca, senza alcuna illusione). È di certo una soluzione discutibile data l’arditezza con cui venivano buttate a mare le stratificate convenzioni registiche. Però alla resa dei conti, la penetrazione dell’opera verdiana non poteva essere più completa, proprio perché dalla solidità dell’impianto strutturale, Visconti ha saputo realizzare un mondo e un ambiente preciso, storicamente e socialmente identificato come classe (come morale e pregiudizi di classe), dentro il quale il contrasto dei caratteri, il conflitto fra Violetta e la società, attraverso i contraddittori rapporti con Alfredo e Germont, assunsero la loro portata significativa.

Ossia nessuno che non sia sordo, anche a non prendere in considerazione i dichiarati propositi di Verdi, può negare la totale partecipazione del musicista all’eterodossa morale dell’eroina, per cui il contenuto ideale della Traviata è tutto romantico, ma in quanto decisamente progressista rispetto ai tempi: resta però il fatto che a cominciare dal giorno in cui la Traviata fu costretta a mascherarsi in un’ipotetica storia dei tempi di Luigi XII, sempre più si è insistito sulla grandezza musicale, vocale, melodica dell’opera e sempre meno sì è guardato al suo significato, al suo effettivo engagement. In un mondo in cui si è disposti ad accettare un Verdi genericamente patriottico (Va pensiero, I Lombardi e così via), ma che rigetta senz’altro il sospetto di un Verdi (che diciamo, di un qualsiasi artista) che prende posizione verso la società, ciò è perfettamente comprensibile. Al contrario Visconti, ricostruendo l’unità del libretto nell’unità della musica, insomma facendo della Traviata un fatto teatrale e non soltanto musicale, serrando il ritmo scenico sulla prodigiosa battuta verdiana in un incalzare drammatico che non lascia fiato, non soltanto ha riscoperto, dal punto di vista formale, la presenza del melodramma; bensì proprio per ciò ha messo in luce come la sua vera essenza la si ritrovi per il convergere d’ogni elemento alla costruzione del dramma, nella sua azione drammatica e dunque nel suo contenuto, quindi ha di nuovo in maniera decisamente obbiettiva contribuito a mettere in luce la priorità del contenuto, beninteso in relazione alla bellezza all’osservanza alla realizzazione della forma.

Ma accanto a questa sapienza di condotta cè tutto il bagaglio, da alcuni definito sprezzantemente scenografico, di Visconti, i simbolismi, il pittoricismo, la compiacenza dell’effetto, di cui effettivamente la sua regia è tutt’altro che povera. Però nel caso della Traviata, che anche in questo senso ci è parsa la più avanzata di tutte le sue realizzazioni, il cosiddetto « orpello » viscontiano non ha sovrastato l’impianto, s’è invece risolto in un elemento di vitalità scenica che in ultima analisi ha contribuito in maniera decisiva a caratterizzare i personaggi, le situazioni. Evidentemente però l’equilibrio è di quelli che non nascondono completamente la presenza di una pericolosa vocazione che, ove fosse assecondata, porterebbe Visconti a un naturalismo magistrale ma equivoco, dunque l’esatto contrario dei suoi più profondi e veritieri obbiettivi. S’è detto che Anna Bolena può intendersi come una smentita a simili vocazioni. Tuttavia fino a un certo punto. Innanzi tutto Anna Bolena è stata correttamente affrontata da un angolo di visuale decisamente diverso da quello della Traviata. Benois che con molta sobrietà e bravura s’è rifatto all’allestimento. originale, risolvendolo in un tono grigio strepitosamente emblematico nella sua nuda continuità attraverso i tre atti, ha evidentemente preparato una scena perfettamente aderente al tetro, fatale e sentimentale, romanticismo della tragedia di Donizetti, per una regia che dalla musica e dal libretto di Romani ha molto giustamente tratta l’indicazione di un rigore storico-filologico assoluto. Di fatti la figura di Anna e quella di Enrico e tutte le altre hanno legittimato la loro presenza attuale, perché dall’orchestra al palcoscenico s’è aderito perfettamente allo spirito romantico del melodramma serio italiano prima di Verdi. Però anche qui certo gusto del particolare, per quanto acuto e pertinente (i costumi gialli delle guardie nella scena culminante del dramma, evidentemente a significare la loro estraneità al mondo in cui il conflitto si conduce), è parso la possibilità di un’apertura a certo preziosismo marginale. Possibilità di cui insistiamo a far cenno, poiché la regia musicale di Visconti annovera anche un titolo come il balletto Mario e il Mago di Franco Mannino, dove la magistrale sapienza viscontiana s’è effettivamente persa nel compiacimento dell’immagine,
del gesto assolto in sé.

La regia viscontiana si pone comunque al centro dell’odierna ricerca di un riscatto del melodramma dagli antichi servaggi. Visconti è infatti un autentico rinnovatore, il maestro di una nuova scuola per i cantanti e le masse: egli insegna loro a recitare, a muoversi, a esprimere con la propria persona oltre che con la propria voce, i sentimenti, i pensieri che sono chiamati a interpretare. Cantanti di temperamento come la Callas o il Di Stefano, tuttavia convenzionali finché affidati a se stessi, sono divenuti dei grandi attori nelle sue mani, e oggi risentono positivamente la lezione ricevuta. Le masse corali, tradizionalmente immobili in palcoscenico, egli le ha sapute trasformare in una emozionante e significativa presenza: il ballo della Traviata, il rito della Vestale e la mirabile uscita delle dame di compagnia dalla sala dove la loro infelice regina attende la propria condanna nell’Anna Bolena, sono altrettante dimostrazioni della capacità di trasferire delle musiche nate per indicare, accompagnare, provocare un movimento di persone, nei precisi movimenti voluti. È, ancora una volta, la capacità di tradurre nella regia il significato drammatico della musica.

Col che siamo all’ultima che poi è anche la prima delle grandi doti di Visconti regista di melodrammi: il suo è un lavoro che si sconta tutto sulla partitura, che decide l’interpretazione sulla pagina musicale, come quella, alla fine, in cui il libretto si rivela nei suoi unici e veri significati.

Luigi Pestalozza