Ansedonia, agosto 1967
« Clara Calamai è morta per tutti », dice emergendo corrucciata tra le rocce in bikini, i capelli tirati dall’acqua, niente trucco, ancora sorprendentemente bella. Il suo nome non rammenta nulla ai giovani ma la generazione che ha fatto la guerra si emoziona ad udirlo. Una immagine rapida, fissata dal ricordo: Ginevra, la prima donna apparsa nuda sullo schermo italiano. Quel corpo stupendo, per nulla sexy, cui Amedeo Nazzari in un impeto d’ira aveva strappato il corsetto, accompagnò i soldati al fronte insieme con il volto triste della madre e gli occhi pieni di lacrime della fidanzata. Lei era l’amante segreta, il sogno conturbante e impossibile: nella crudita dei tempi, gli uomini in colloquio quotidiano con la morte avevano riscoperto in Clara Calamai la donna del mito.
L’abbiamo raggiunta nel suo rifugio di Ansedonia, nascosto tra le rocce a picco sul mare: una casa di pietra arrampicata e quasi amalgamata al declivio, cui ha dato il nome modesto di « La cuccia ». Ma l’interno è raffinato, arredato senza civetterie con un gusto severo e sicuro. Un piccolo, sentiero scosceso reca al mare: e qui, su una esigua terrazza, Clara Calamai trascorre solitaria le sue giornate: « Io sono come una donna morta che vive. Molto ho avuto e molto ho perduto. Adesso non m’interessa più niente ».
Ma a poco a poco si rasserena: una parola gentile basta a farla sorridere, ad aprirci la sua ospitalità e la sua confidenza: « Non sono mai stata un’attrice, alle prove recitavo come un bambino di cinque anni. Ma quando si girava sul serio non ero più io: ero il personaggio ».
Per il pane
Divenne attrice per caso, dopo essersi sparata al cuore per una delusione d’amore. Lui era uno studente povero, lei la figlia del capostazione di Prato. Guarì senza volerlo, per ritrovarsi addosso quel corpo perfetto e senza scopo. Un’amica di famiglia, moglie di un attore allora in voga, le disse: « Perché non tenti il cinema? ». Le fecero un provino e lo spedirono a Roma. Subito arrivò una scrittura. Il viaggio a Roma fu compiuto in terza classe, il volto inondato di lacrime per la morte improvvisa del padre: « Non voleva che facessi l’attrice, era un uomo all’antica. Ma adesso era necessario lavorare, a casa c’era mia madre molto ammalata, non avevo altra scelta. Ho lavorato senza ambizioni né furbizia. Ho lottato per il pane e basta. Il mio sogno era di raggranellare un milione per avere una rendita di tremila lire al mese. Non ci sono mai riuscita ».
La parte, quasi un presagio, di una contessa in Pietro Micca. Poi quella di una tenutaria di alto bordo in Ettore Fieramosca. Alessandrini, Blasetti la fissano come una farfalla all’album delle donne fatali per una cinquantina di film fino a quella Ginevra di La cena delle Beffe che la renderà celebre: « No, non ho fatto storie per quella scena. Per avere pudore bisogna non essere innocenti. Ma io sono innocente. Altre hanno voluto fare scene simili dopo di me, ma la censura non le passò perché erano indecenti. Ve ne sono anche ora che recitano vestite, con quegli abiti aderenti che vogliono far pensare male e io quando le vedo sullo schermo mi sento offesa come donna. Ma quando Neri mi strappava la camicia non era per sensualità, lui credeva che Ginevra lo avesse tradito e faceva quel gesto per disprezzo. Era una scena forte e vera. Una scena onesta ».
Ossessione, di Luchino Visconti, le diede una fama internazionale: quel personaggio di Giovanna era il culmine della sua carriera di donna fatale. Ma Clara Calamai, nella vita, non era una donna fatale: « Mai ho interpretato un personaggio che mi assomigliasse. Ero un’impulsiva e un’ingenua ». Allora era comparso all’orizzonte Leonardo Bonzi, conte, eroe di guerra, famoso aviatore: « Un superman, ma io non l’ho capito ». Si innamorò di lui perché era diverso dagli altri, perché veniva a volare in picchiata sulla sua casa. Lo sposò per dargli un figlio. Abbandonò il cinema.
«Con questa rinunzia credevo di avergli dato chissà che cosa. Ma mi portavo appresso il mio bagaglio di diva. Il figlio non venne, io feci molti sbagli. Lui era un uomo straordinario, aveva bisogno di una donna intelligente. Io lo volevo ai miei piedi. Quando, con Lualdi, compì il famoso raid dell’« Angelo dei Bimbi » attraversando l’oceano su un piccolo aeroplano, io avrei dovuto essere di là, in America, ad aspettarlo. Non ci andai. L’ho perduto per mia colpa, adesso lo so. È la donna che deve dare. Nessun marito lascia la sua donna se questa, oltre all’amore, gli dà tenerezza, e il senso della casa dove sempre ritornare. La felicità, una donna se la crea o la perde con le sue mani. Io l’ho capito troppo tardi. E ancora soffro per quello che non ho saputo dare ».
Una delusione
Sono rimasti buoni amici, anche se lui ha un’altra compagna. Anche lei ha un compagno, ex-aviatore e eroe di guerra, che teneramente l’ama. Hanno costruito insieme «La cuccia » dove egli la raggiunge da Roma a fine settimana. Una vita pacata, in lunghe solitudini e qualche mondanità al sabato sera, quando Clara Calamai, elegante, raffinata, ritorna per poche ore la diva degli anni quaranta.
Ma gli altri giorni si alza all’alba e riordina la casa, scende al mare e rincasa al tramonto. Alle otto di sera è già addormentata, con un libro aperto e con Tai Tati, la siamese, unica presenza viva. Un anno fa, un’ultima avventura. Luchino Visconti la chiamò per una parte nel film Le streghe. Clara Calamai, accingendovisi con gioia, si risentì una donna viva. La delusione, quando si vide sullo schermo, fu disastrosa: « Mi sono sentita morire ». L’avevano travestita in un modo grottesco, avevano ritagliato, per conservarle nel film, le scene peggiori. Più che la cosa in sé, fu la cattiva azione a farla soffrire. Così, nello sconforto, com’era iniziata, è finita la sua vita di diva: « L’ho sempre presa sbagliata questa vita mia. Ho sempre pensato che non si può essere felici, con il padre e la madre che devono morire, con tutti questi animali che devono essere uccisi, con tutto questo dolore che si vede nel mondo ».
Ma non è una musona, e basta una parola, un gesto gentile a strapparle un sorriso. Riaccompagnandoci al cancello si china a raccogliere una cicala morta e dice: « Non canterà più. Questa è la vita ».
Laura Bergagna