Roma, agosto 1972
Non c’entra la malattia del regista: il Ludwig di Visconti non si vedrà alla Mostra del cinema di Venezia, che si inaugura in questi giorni, semplicemente perché il film non è ancora pronto. Visconti se lo è visto crescere in mano, ingigantirsi, perfezionarsi fino a far saltare tutti i programmi del calendario di produzione. Il lavoro è adesso al montaggio e non andrà forse in distribuzione che prima della fine di ottobre.
Sarà, dopo La caduta degli Dei e Morte a Venezia, il terzo confronto diretto del regista con il mondo in disfacimento della Mitteleuropa. Il disfacimento, questa volta, è quello di un uomo catapultato in un’epoca che non lo riguarda.
«Ludwig era, dentro di sé, un signore feudale — dice Visconti — completamente estraneo alla logica politica del suo tempo. Ebbe intuizioni geniali, ma incomprensibili ai suoi contemporanei. Per esempio: i castelli. Costruendoli rovinò le finanze dello Stato, ma gettò le basi dell’opulenza turistica che oggi è la fortuna della Baviera. Non voleva le guerre perché aveva orrore del sangue: così ne perse due. Non voleva l’unità della Germania sotto l’impero prussiano, perché gli piaceva essere il monarca assoluto di un regno piccolo ma centenario: così la Prussia riuscì ad avere la Baviera con meno fatica, e lui ne morì. Voleva vivere da mecenate, come i granduchi di Toscana: e ne pagò tutte le spese di persona ».
Di Ludwig II Wittelsbach, abbiamo discusso a lungo con Luchino Visconti nella penombra della sua fastosa casa romana sulla via Salaria. Era proprio la mattina del giorno che si sarebbe chiuso per il regista — che ha 66 anni — con il precipitoso ricovero in clinica per intossicazione da fumo. Due settimane dopo quel ricovero abbiamo cercato di parlare col regista al telefono: una barriera insormontabile di ’”viscontiani” (parenti e amici) impedisce ogni intrusione. La paresi che ha colpito Visconti, immobilizzando la parte sinistra del corpo, sta regredendo. Fra due settimane — dicono i medici — Luchino tornerà al lavoro per finire questo suo film.
Torniamo alla pazzia di Ludwig, alla sua incredibile, misteriosa e inverosimile morte, a soli 41 anni, nel lago del castello di Schloss Berg, dove i ministri l’avevano fatto rinchiudere perché non provocasse altri guai nella gestione dello Stato… «Ludwig non era pazzo — protesta Visconti — non lo era più di quanto lo siamo lei e io, ora, mentre lo ricordiamo. Era così poco pazzo che il dottor Von Gudden, lo psichiatra che lo seguì come un’ombra per tutti gli ultimi anni, gli aveva consentito quel giorno di passeggiare nel parco, libero, senza altra sorveglianza che la sua personale. La mattina dopo, all’alba, i contadini trovarono due cadaveri gonfi che galleggiavano nell’acqua: quello del re e quello del suo dottore. Von Gudden aveva il collo graffiato. L’acqua non era più fonda di un metro. Ludwig, alto un metro e 84, era un nuotatore provetto».
Non si è mai saputa la verità su quella morte. Qualche giorno prima (era l’anno 1882, Ludwig regnava dal 1864), il re aveva scritto a sua madre, alla quale era legato da uno strano rapporto di amore-odio, alcune lettere estremamente lucide. Il dottore era certo che stava per guarire. Molte ipotesi sono state fatte: che Ludwig abbia voluto ribellarsi allo psichiatra uccidendolo, e siano morti entrambi nella colluttazione; che abbia invece deciso di uccidersi coinvolgendo Von Gudden che cercava di impedirglielo; che — infine — sia stato eliminato da un sicario, insieme al dottore che aveva visto tutto.
«Nel film — dice Visconti — ho voluto mantenere l’equivoco che la storia non ha svelato. La mia impressione, tuttavia, è che si sia fatto l’impossibile per tenere nascosta quella verità. Gli eredi della famiglia Wittelsbach (un ramo cadetto, visto che né il re né suo fratello Otto ebbero figli) sono stati molto abili, o molto potenti, in questo senso. Sul cadavere non si fece l’autopsia. Qualcuno, oggi, sostiene di avere in mano la giacca del re con un foro di pallottola, ma non è in grado di provare che quel foro non sia stato fatto in un secondo tempo… Comunque Monaco è piena di monumenti ai Wittelsbach: c’è quello di Ludwig I e quello di Massimiliano, che furono rispettivamente il nonno e il padre di Ludwig II. Ma di lui c’è soltanto una statuina nascosta in un parco fuorimano. Quando ho cercato di saperne il perché mi hanno risposto che non si era trovato il luogo adatto. Ma come? Se Monaco ha decine di piazze vuote? Lo stesso discorso vale per la tomba. Sapevo che è nella chiesa di San Michele, che appartiene all’ordine dei Gesuiti. Sono andato a vederla. Mi hanno fatto scendere nei sotterranei. La bara di Ludwig è lì, in un angolo, insieme a tante altre».
A che cosa si deve questa precisa determinazione nel cancellare tutte le tracce di Ludwig? Non certo ai soldi che il re spese insensatamente per i castelli o per le sovvenzioni-donazioni a Wagner. Tutti i Wittelspbach avevano costruito castelli, anche se con una fissazione meno dispendiosa, e il nonno di Ludwig non dilapidò forse una fortuna per l’avventuriera Lola Montès? Ma Lola era una donna, e si limitò a suscitare chiacchiere di palazzo. Invece la “Lola” di Ludwig era un uomo, un musicista contestato che per di più aveva un passato giovanile anarchico e rivoluzionario: Wagner. «A corte Wagner lo chiamavano Lolo», racconta Visconti. Poi aggiunge: «No, per me la ragione degli odi che infransero Ludwig era ben diversa. Era che Ludwig voleva essere re fino in fondo e a modo suo: monarca assoluto, di diritto divino. Inoltre non aveva esitato a inimicarsi i detentori di un potere che allora era immenso in Baviera, cioè i Gesuiti. Mentre lo redarguivano per la sua condotta morale, questi cercavano in effetti di accrescere la loro influenza nello Stato approfittando delle sue “distrazioni”. Ludwig sopportò per anni, con la stessa diplomazia di suo padre…».
Un giorno Ludwig dichiara decaduto il principio dell’infallibilità del Papa e caccia i Gesuiti dalla Baviera
«Poi seppe della relazione di Wagner con Cosima von Biilow, figlia di Liszt, e cominciò a star male. La vicenda del mancato matrimonio con Sofia, sorella della sua grande amica Elisabetta, imperatrice d’Austria, lo mise a terra definitivamente. Diventò duro, chiuso, cominciò a ingrassare orribilmente e a perdere i denti. Un giorno si decise: dichiarò decaduto il principio dell’infallibilità del Papa e cacciò i Gesuiti dai confini del regno. Ecco, francamente io ho la sensazione che nella sua morte, quel pomeriggio sul lago, non sia stata assente la mano dei Gesuiti. E se non furono loro direttamente a mandare i sicari furono i Wittelsbach, o i ministri del governo, o tutti e tre insieme».
Il regista, che tra sopralluoghi e riprese ha passato in Baviera diversi mesi, è convinto che i Wittelsbach abbiano in mano tutti gli elementi chiarificatori della storia. Ma li tengono nel cassetto, oppure li hanno già distrutti. Visconti è stato anzi il primo cineasta che ha potuto lavorare all’interno dei castelli di Ludwig, nello scenario che Ludwig stesso si era costruito. Altri quattro film girati in passato sulla storia del re (dai tedeschi e dai francesi) hanno dovuto accontentarsi di ricostruzioni di fantasia.
«Ma le chiavi dei castelli — dice il regista — sono state tutto ciò che ho avuto dai Wittelsbach. Non sono nemmeno riuscito a incontrare personalmente uno di loro. Ho ottenuto invece un colloquio con il capo del loro archivio segreto. Speravo che mi potesse dire qualcosa di inedito, farmi dare uno sguardo magari al diario di Ludwig, di cui è stato pubblicato soltanto qualche brano particolarmente insignificante, e dove forse c’è scritta, invece, la spiegazione di tutto». Il capo dell’archivio, un vecchio signore distinto, lo ha intrattenuto per due ore in gentilissime chiacchiere, senza nemmeno sfiorare il problema.
Ma che interesse avevano i Wittelsbach alla scomparsa di Ludwig? Non gli bastava averlo chiuso in un castello isolato dal mondo, prigioniero di uno psichiatra? «Non ci può essere che una sola spiegazione — dice Visconti — e cioè che Ludwig non era affatto pazzo, o almeno che stava per guarire. Eliminarlo era il solo modo per evitare che ritornasse a regnare e a spendere a modo suo. E che continuasse a chiedere prestiti in tutta Europa, dopo aver dilapidato l’intero patrimonio suo e quello della madre, per costruire altri castelli. C’era il rischio di uno scandalo finanziario. Il re era sull’orlo di una catastrofica bancarotta e stavano per dichiarargli fallimento. Questo, i Wittelsbach non potevano tollerarlo. I discendenti di una delle più antiche famiglie nobili d’Europa, che avevano sparso il loro sangue blu e tarato in quasi tutte le case regnanti — fino ai Savoia — potevano ammettere che il loro cugino Ludwig fosse pazzo? Un re pazzo non è una vergogna. Ma un re fallito, come un qualsiasi commerciante, questo era davvero inconcepibile per quei tempi e in quel clima culturale».

Non ci sono monumenti, niente documenti nè rivelazioni: quindi anche pochi libri su Ludwig. Cercando negli archivi e nelle biblioteche, si ha l’impressione che la potenza dei Wittelsbach, unita all’autocensura di chi ha preferito non approfondire il ritratto di un re omosessuale, sia riuscita a tappare tutte le bocche. Ma ci sono, se non altro, le lettere che il re scriveva all’amico Wagner, e anche i diari autentici di quest’ultimo. Quanto basta per farsi del re un’idea meno romantica, meno bella, di quella che sembra essere alla base del film di Visconti. Più che un nevrotico geniale, il re era forse un debosciato irresponsabile, la cui condotta rovinò un intero Paese.
A 19 anni, quando salì sul trono, Ludwig era pallido, dinoccolato, e aveva lunghi riccioli neri fin sulle spalle. Qualcuno disse di lui che era il «più bell’adolescente che si fosse mai visto in Baviera». E il giudizio di Visconti su Ludwig? «Ecco, io penso che sia stato una vittima. Vittima di un tempo che lui rifiuta, di una logica politica che cozza contro tutte le sue aspirazioni e la sua sensibilità. Era già minato dal male ereditario dei Wittelsbach — suo fratello Otto impazzì e fu definitivamente rinchiuso dieci anni prima di lui — quando assunse le redini di un trono vacillante, che avrebbe avuto bisogno di ben altro polso di statista».
In clinica si prepara a dirigere Wagner alla Scala, ma si riposa ascoltando Lucio Battisti
Il primo desiderio del re, il giorno dell’incoronazione, fu di avere, subito e materialmente, Wagner. Del musicista si era invaghito seguendo la spirale del superuomismo, dalle premesse del romanticismo fino agli scritti deliranti del musicista. Già prima di incontrarlo, Ludwig aveva riempito i suoi appartamenti di forme di cigno: rubinetti, stucchi, maniglie fatte a cigno. Il cigno è il simbolo di Lohengrin, che è il polo d’attrazione di tutta la prima parte — quella più istintiva, meno geniale musicalmente — della musica wagneriana. Più tardi, l’amico avrebbe detto al re che lui era l’incarnazione di Parsifal, il figlio di Lohengrin, che è un personaggio del secondo ciclo della sua arte. Quando Wagner morì, a Venezia, i medici impedirono a Ludwig di partecipare al funerale. Il re riuscì ugualmente ad ottenere che fossero velati di nero, in segno di lutto, tutti i pianoforti della Baviera.
Insomma è difficile resistere al fascino di questo incredibile personaggio. Visconti del resto non ha fatto nulla per riuscirci. Anzi, il suo rapporto col mondo dell’ultimo grande Wittelsbach non si esaurirà con l’uscita del film. Il regista infatti ha deciso di affrontare Wagner. Ma stavolta non al cinema: a cominciare dalla prossima stagione lirica, infatti, Visconti curerà le scenografie e i costumi della ’’tetralogia” alla Scala di Milano: un impegno di quattro anni. L’oro del Reno, prima opera del ciclo, dovrebbe andare in scena nel febbraio del ’73. Ecco perché in clinica, Visconti in questi giorni si è ascoltato più volte le incisioni di Wagner: nonostante la malattia, ha “studiato” e, per riposarsi, si è fatto portare dei dischi di Lucio Battisti. Quanto ai suoi progetti cinematografici Visconti intende dire basta alla Mitteleuropa: il suo prossimo lavoro infatti racconterà la vita di Zelda Fitzgerald, la moglie di Francis Scott Fitzgerald, lo scrittore che inventò la “lost generation” americana, l’autore del Grande Gatsby e di Tenera è la notte. «Sono in cerca di altri climi e di altri ambienti — dice Visconti —. Quello dell’America degli anni Venti legato alla Parigi folle dei surrealisti e di Picasso mi ha sempre affascinato, ma non avevo mai trovato la chiave per affrontarlo. Zelda Fitzgerald è il personaggio giusto: un’altra vittima, un altro genio, immersa fino al collo in un tempo perduto».
Francesco Perego