Luchino Visconti risponde e passa alla controffensiva 1

Che si vuole di più?

L’Albertazzi-Proclemer fa esauriti con Requiem per una monaca; a Roma e altrove la Compagna dei Giovani ha riscosso uno straordinario successo (fatto inaudito) con una novità italiana; Eduardo va benone; Gassman (e con lui, il suddetto Paone) fa incassi ottimi con Irma la dolce. Ma non è solo questo: dappertutto sorgono iniziative nuove, nascono nuovi teatri. Finora, ad esempio, sentivamo lamentare che questo o quel teatro veniva trasformato in cinema. Quest’anno, si sente parlare di cinema che vengono trasformati in teatri. È il cammino inverso. Che si vuole di più?

6) Uno degli assertori più accaniti della crisi del teatro odierno e delle sorti della compagnia di giro è l’eminente critico Eligio Possenti. Egli ha svolto le sue tesi al convegno dell’I.D.I. a Saint Vincent. E si appoggia a cifre incontrovertibili, rese note dal direttore della Società degli Autori, Antonio Ciampi, nell’Annuario di quest’ultima.

Secondo tali cifre, dal 1950 all’anno scorso il numero dei biglietti venduti è calato da
sei milioni e novecento a quattro milioni e centomila. Un calo veramente impressionante. Che dimostrerebbe, come al solito, quello che si voleva dimostrare: che da quando, o pressappoco, esiste in Italia un nuovo movimento teatrale, il pubblico si è messo a scappare dai teatri!

Ma si è domandato Possenti dove quel calo della vendita dei biglietti, quel rarefarsi cioè degli spettacoli, è avvenuto?

È avvenuto in provincia: e precisamente nelle regioni dove non esistono città con almeno cinquecentomila abitanti. Rileggiamo quelle statistiche: e studiamole, perché è vero che esse ci insegnano un fatto fondamentale. Che cioè nelle regioni come la Calabria, l’Umbria, le Marche, ecc. il teatro (e cioè le compagnie di giro) hanno perduto, per effetto della televisione, la quasi totalità degli spettatori.

Ma nelle città? Nelle città è accaduto esattamente il contrario, Così nel Lazio (cioè Roma), dove il numero dei biglietti venduti per ogni cento persone era nel 1938 di 626, nel 1957 è salito a 673. In Lombardia (cioè a Milano) mentre nel 1938 si vendettero solo 522 biglietti (ogni cento abitanti), nel 1957 sì è saliti a ben 86,6. In Emilia (a Bologna): da 508 nel 1938 si è saliti a 56,6 nel 1957. In Toscana (a Firenze), da 433 a 61,1. In Campania (Napoli) da 57,7 a 79,9. (Lo stesso si dica per città come Trieste e Bari).

Questo prova una verità lampante: che si sta verificando anche da noi quel che avviene nelle Nazioni teatrali più evolute: e cioè che il teatro non può essere che eccezionalmente girovago; che il suo luogo di sviluppo è la città (cosa che sapevamo per Parigi, Londra, Nuova York, Mosca, Berlino, ma che sta avvenendo anche per Milano, Roma, e a poco a poco per le altre città italiane più importanti); che la sua tendenza va sempre di più verso la stabilità.

Questo prova anche che abbiamo visto giusto, che la nostra via era la migliore. Se nelle provincie la televisione ha spazzato via la debole concorrenza delle compagnie di giro, nelle città, dove, grazie al movimento di rinnovamento al quale noi e i migliori (primo fra tutti il Piccolo Teatro di Milano) ci siamo dedicati, il teatro s’è battuto sul piano della dignità e della qualità, il numero degli spettatori è cresciuto, ed è in continuo aumento. Altro che crisi del teatro! Se qualcosa è in crisi, questa è la vecchia compagnia di giro, e nessuna legge varrà a risuscitarla: essa è un fenomeno e uno strumento superato.

Oggi la tendenza inequivocabile e direi fatale del teatro è alla stabilizzazione cittadina. Questa tendenza prende due forme: quella della creazione di teatri stabili sempre più diffusi; oppure quella di compagnie stabili, come quella compagnia Morelli-Stoppa che da parecchi anni ormai dirigo, che si rivolge a spettacoli di alta qualità e livello. Il teatro non è fatto per prodotti in serie: esso non può che basarsi sulla qualità, sull’originalità, sull’intelligenza.

C’è una certa confusione oggi, su questi concetti, e molti si impancano a moralizzatori e riformatori del teatro senza averne il minimo diritto. Il pubblico comincia ad essere più irrequieto. Io continuo a ritenerlo buon segno. Questa inquietudine ci libera dalla noia e dall’assenza di rischio che caratterizzavano il nostro teatro. Senza rischio non c’è vitalità per il teatro. Quanto al pubblico popolare, io credo che non si tratti di riconquistarlo quanto di conquistarlo.

La vera alternativa

Ma come, se i costi aumentano e i prezzi anche? Questo sarà un problema da risolvere. Ma io non credo che un teatro possa diventare popolare oggi offrendo sottoprodotti; non si può oggi offrire carrozza e cavallo nell’epoca dell’automobile e dell’aeroplano. Come non si dipinge più oggi alla maniera di Segantini, non si costruiscono case alla maniera di Coppedè, non si compone più alla maniera di Ponchielli, così il teatro non può non essere moderno: pena, allora sì, la vera crisi, e la morte.

Siamo usciti dal caso personale perché si tratta di questioni generali. Ma il caso particolare può diventare un’occasione fortunata per lanciare un appello, a coloro cui stanno a cuore le sorti del teatro. Il quadro che i miei contraddittori (con le loro oscure nostalgie e i passi indietro che vorrebbero fare) ci hanno mostrato è quanto mai significativo: se essi potessero provocherebbero la fine non solo del movimento teatrale moderno in Italia, ma la fine del teatro come espressione evoluta e autonoma. Esso, come esiste oggi nelle sue forme, è nato dal nostro lavoro, dalla nostra volontà: abbiamo rischiato continuamente di persona, abbiamo sfidato l’indifferenza, la pigrizia, la resistenza non del pubblico ma di un sistema refrattario, recalcitrante, pavido, dilettantesco, ottocentesco, Abbiamo presentato grandi autori moderni, e grandi classici come Shakespeare, Cecov, Goldoni.

A chi crede che la battaglia per un teatro moderno sia finita o in sordina, noi rispondiamo che essa è appena cominciata. Accanto a nuove forme, esistono nel teatro italiano vecchie strutture. Esiste una rigidezza di rapporti ed impegni per cui i pochi che hanno in mano teatri e giri di piazze possono spadroneggiare, e sovente ostacolare le iniziative che ai loro occhi hanno il torto di essere troppo audaci.

L’alternativa è ancora oggi tra un teatro ardito e moderno e un teatro pigro e antiquato. In favore di quest’ultimo stanno la vecchia struttura, i vecchi interessi, le coalizioni di impresari, critici e autori che ci rimproverano di non rappresentarli. Noi rispondiamo che il teatro non è un ente di beneficenza, Esso ha solo bisogno di nuove strutture e di una visione nuova e più audace. Non è la nuova legge che risolverà questo, ma pure noi chiediamo che la nuova legge che si annuncia rispecchi le nuove situazioni, e desista dal sostenere vecchie impalcature ormai fradicie. Perché il teatro è una cosa seria; perché esso è per sua natura prevalentemente stabile; perché abbisogna di prove, pazienza, preparazione; queste semplici proposizioni sono il frutto di quindici anni di lavoro accanito di una nuova generazione, ed è bene dire a tutti che non ce ne lasceremo defraudare.

Luchino Visconti

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