Se una commedia è brutta, non c’è regista che la possa far sembrare bella. La compagnia era carica di scene monumentali: per i trionfi di Ottaviano, elefanti compresi, sarebbero occorse spese minori. Non rinneghiamo il passato: Talli, Niccodemi e Pirandello hanno dato al teatro tradizione e nobiltà.
Gennaio 1959
Mi permetta Luchino Visconti — con il quale, nonostante lo stimi e lo ami, sono costretto ad entrare in polemica — di chiedergli perché mai, anziché rispondere con argomenti validi a quanti vedono nell’attuale dittatura del regista una delle principali cause della crisi del teatro italiano, letteralmente si avventi contro di me che altro non ho fatto, in quindici anni di buona amicizia, che dargli prove della mia ammirazione, e che semplicemente, nel caso di Veglia la mia casa, Angelo, ho anticipato, in vista della mia trentennale esperienza d’uomo di teatro, il giudizio negativo del pubblico sulla brutta commedia che pur si giovava dell’ottima recitazione di Lilla Brignone e d’Annibale Ninchi e della magistrale regia dello stesso Visconti.
Fu la sera dell’11 ottobre scorso, al Quirino di Roma. Si dava la «prima» assoluta. A metà dello spettacolo m’avvicinai a Carlo Alberto Cappelli, l’impresario, e in presenza del nostro agente, dott. Buonamico, gli dissi tutti i miei dubbi sull’opportunità di dar la commedia al Nuovo di Milano durante la stagione di Carnevale, dal 25 gennaio all’8 di marzo, vale a dire per la durata di quarantacinque giorni. E il 15 ottobre scrissi a Cappelli proponendogli di ridurre il corso delle recite a ventiquattro giorni, i quali mi sembravano già molti, ma era un omaggio che dovevo alla bravura degli attori e alla valentia del regista, e questa mia proposta fu apprezzata dallo stesso legale di Luchino, avvocato Cortina.
Sappia, inoltre, il lettore che quando parlavo a Cappelli, il contratto, da me debitamente firmato, non poteva dirsi perfetto, in quanto non mi era ancora stato restituito: perciò Luchino non può accusare il «Signor Paone», — come improvvisamente, dopo quindici anni di amicizia, con feudale distacco si compiace di chiamarmi — di non aver tenuto fede ad un regolare contratto. Il regolare contratto, quando io esposi i miei dubbi e maturai la prudente proposta, non esisteva ancora.
Un “giro” impossibile
Non commetta perciò Luchino l’imprudenza d’affermare che il vero responsabile dello scioglimento della Compagnia Brignone-Ninchi è Remigio Paone, e neppure quella, ancor meno perdonabile, d’esclamare con inspiegabile leggerezza che, essendo il romanzo di Thomas Wolfe, dal quale la commedia è stata tratta, uno dei capolavori del Novecento, lo spettacolo dovrebbe aver successo. Sarebbe come dire che a ogni riduzione teatrale, anche mal fatta, de I promessi sposi, è obbligatorio, per riguardo al Manzoni, decretare il trionfo. È un’affermazione che un uomo di teatro come Luchino non avrebbe mai fatto se non avesse giocato in lui il risentimento — umanissimo, del resto — verso l’uomo d’esperienza che, con i suoi timori regolarmente avveratisi, sfatava la sua infallibilità… l’impresario — il tanto da lui maltrattato impresario —, che si permetteva di dire al regista: tu sei bravo, tu sei grande, ma, bada, non sei tutto. Se una commedia è brutta, non c’è regista al mondo che possa farla sembrare bella, come non c’è Toscaninì che possa far apparire un capolavoro un cattivo spartito.
Anche i registi possono sbagliare.
E lo dicevano le cifre: Roma, Quirino, prima sera un milione e ottocentomila lire (il successo mondano e intellettualistico), seconda sera quattrocentomila lire, terza sera duecentocinquantamila, quarta sera giù di Iì, Fin dai primi giorni la Compagnia ha incominciato ad andare incontro allo scioglimento, e per colpa esclusivamente della commedia, e non già di Remigio Paone; senza dire che il regista Luchino Visconti aveva commesso il gravissimo errore di caricare una Compagnia «di giro» del peso di scene monumentali il cui trasporto e il cuì montaggio richiedevano spese che gli incassi — sufficienti appena per le paghe degli attori — non permettevano di sostenere. Oltre al normale personale tecnico della Compagnia e del teatro, c’erano diciotto aiuto-macchinisti, cinque elettricisti e cinque servi di scena, Per i trionfi di Cesare Ottaviano occorrevano meno persone. Mancavano solo gli elefanti. La stessa Lilla Brignone, come ha scritto Alberto Cavallari sul «Corriere d’informazione» del 4 dicembre, ha dichiarato: «Gli errori che hanno accompagnato questo spettacolo sono molti. Il foglio paga non era alto. L’incasso non era sufficiente, ma non era nemmeno disastroso. Certo lo diventò se si pensa che le spese per il trasporto e il montaggio di un allestimento enorme, inadatto ad una compagnia di giro, incideva più di ogni altra voce. Partimmo da Roma con uno spettacolo adatto solo ad una compagnia stabile, con scene pesanti, complicate. Per un mese chiesi di semplificare, ma non fui ascoltata».
C’è ancora qualcuno disposto a credere che il responsabile dello scioglimento sia Paone, quel Paone che, si badi bene, non veniva meno ai propri impegni, ma semplicemente, e ragionevolmente (dopo le critiche sfavorevoli pubblicate dai giornali di Milano sulla «prima» di Roma) dimezzava la durata della stagione portandola da quarantacinque a ventiquattro giorni.
I restanti venti giorni la compagnia avrebbe potuto impiegarli — così come aveva già fatto, andando a Salerno, Bari, Perugia e Livorno — portando la commedia a Mantova, a Padova, a Como, a Modena, a Bergamo, a Verona, a Piacenza, in quei centri, cioè, che egli — nemico delle compagnie di giro e fautore delle stabili — reputa antieconomici e che, invece, riescono redditizi, specialmente alle compagnie adorne di bei nomi, le quali esercitano sul pubblico di provincia, d’ordinario così dimenticato, una irresistibile attrazione, riuscendo, almeno per una sera, a strapparlo al cinema e alla televisione.
Ma come poteva girare una compagnia economicamente impiantata come fosse una stabile? Adatte solo ai grandi palcoscenici, le scene non entravano nei piccoli teatri provinciali, e d’altra parte, anche se vi fossero entrate, non si poteva ogni sera smontarle, caricarle sugli autocarri, e la mattina dopo rimontarle.
Un viaggio simile avrebbero potuto farlo le compagnie di Jouvet, di Barrault, di Vilar, dell’Old Vic, quelle compagnie, ricordate?, che gloriosamente girano il mondo rappresentando — e in quale mirabile maniera — capolavori nelle grandi e nelle piccole città; ma sono compagnie, quelle, che hanno le ali, e volano leggere, senza peso, con scene di tela o, al massimo, di legno compensato, e le commedie o le tragedie, non tratte da capolavori della letteratura, sono teatro vero, e i registi, tanto bravi quanto modesti, sembra neppure ci siano, eppure ci sono, e come, ma sommessi, discreti, in punta di piedi.
Gira l’arte, che, leggera, s’adatta a qualsiasi palcoscenico, e non girano i milioni, i quali sono pesanti, troppo pesanti, e per portarli in giro ce ne vogliono ogni giorno altri, troppi altri, tanti altri che, alla fine, più milioni ci si mettono e più il giro è breve.
Ho nominato Jouvet, Barrault, l’Old Vic, ma prima ancora avrei dovuto nominare le Compagnie dirette da Virgilio Talli, da Dario Niccodemi, da Luigi Pirandello, uomini dei quali non si può dire — come Luchino vorrebbe affermare — che abbiano nuociuto al teatro italiano: gli hanno dato, al contrario, quella tradizione e quella nobiltà senza le quali il lavoro degli attuali uomini di teatro non avrebbe una base, e quell’estro, diciamolo pure, che non tutti gli attuali uomini di teatro hanno raccolto.
Tutti possiamo sbagliare.
Questa volta ha sbagliato Visconti, il quale non per questo cessa di essere l’uomo d’ingegno e di gusto che tutti conosciamo e apprezziamo. Penso, anzi, che aver sbagliato gli farà bene, limandogli un po’ quell’immodestia ch’egli forse ha sempre avuto pari all’intelligenza. Quanto poi al gesto «onesto e coraggioso» ch’egli ci ricorda d’aver compiuto sciogliendo la Compagnia e pagando di tasca propria, non esitiamo certo a dargliene atto ma con la semplicità con cui si dà atto d’un gesto che è anche, e soprattutto, doveroso.
I motivi della crisi
Forse Luchino — così proiettato nel futuro da non voltarsi mai indietro a riguardare il passato — ignora le tradizioni d’’onestà e di correttezza dell’impresariato della prosa italiana, ignora che per tenere fede a queste tradizioni c’è stato chi è giunto fino al sacrificio della vita, come l’impresario Romanelli, che, non potendo far fronte ai propri impegni verso gli scritturati, si uccise con un colpo di rivoltella, e non ricorda che il sottoscritto, il quale in trent’anni di vita teatrale ha conosciuto l’ebbrezza dei successi e l’amarezza delle sconfitte e dei rovesci, non ha mai sciolto anticipatamente le Compagnie e ha sempre pagato.
Per quello, infine, che riguarda «i grossi deficit colmati dalle pingui sovvenzioni statali», dirò a Luchino semplicemente ciò che nello scorso giugno dissi all’onorevole Ariosto, oggi Sottosegretario allo Spettacolo, il quale certamente ricorderà che lo esortai a farsi promotore d’una indagine parlamentare che accerti e renda pubbliche tutte le sovvenzioni teatrali concesse fino ad oggi.
Ma questo — che pure mi ha indotto a prender la penna per difendermi e per ristabilire la verità — non è che un episodio. I motivi principali della crisi del teatro sono lo squilibrio fra costi e prezzi, l’elefantiasi di molti spettacoli, la facile concorrenza della televisione in un Paese povero e incolto come il nostro e, se degli appunti si possono muovere ai registi, è doveroso riconoscere che Luchino Visconti è quello che ne merita meno, e, ad ogni modo, in assai minor numero che le lodi.
Non m’attendevo dalla sua intelligenza e dalla sua rettitudine un attacco così infelice e così ingiusto.
Non per questo cesserò di stimarlo e d’ammirarlo. Due settimane or sono ho proposto alla signora Meneghini Callas, che sarà l’astro di prima grandezza della stagione lirica italiana che sto organizzando per il prossimo maggio all’Opéra di Parigi, di chiedere a Luchino Visconti la regia d’una, o due opere,
È facile comprendere, dunque, quanto l’attacco m’abbia amareggiato, anche se mi conforta il pensiero che in Luchino, ormai indifferente alle lodi, non tanto vi sia malanimo contro di me personalmente, ma soverchia facilità ad avventarsi contro tutti coloro i quali, per il semplice fatto che gli muovono un appunto o si permettono un avvertimento o un mònito, egli ritiene colpevoli di lesa maestà.
Remigio Paone