Link alla prima parte di questo articolo
Milano, gennaio 1952
Chiarito quanto sopra, si capirà meglio cosa Visconti intenda dire dichiarando che Bellissima vuole essere un film su un personaggio: la storia di una donna o meglio di una crisi, di una popolana che avendo dovuto rinunciare a certe segrete aspirazioni piccolo borghesi, tenta di realizzarle attraverso sua figlia, Maria: che bellissima è soltanto agli occhi dei genitori. “Niní, tu la devi fa l’attrice”, le urla Maddalena mentre nel seminterrato di un grande edificio periferico, nell’appartamento in cui abita, si prepara per condurre la figlia dal fotografo. “Io pure, se avessi potuto…”. E nel cortile del seminterrato, mentre guarda un film proiettato sullo schermo della arena, dice al marito: “A Spartaco, tu non me capisci. Io quando vedo ste cose qua…”. Bellissima è film su un personaggio proprio perché è storia di una crisi (non delle consuete crisi più o meno da casi clinici); e appunto perché storia di una crisi, e di una crisi risolta, è anche film di ambiente. Dell’ambiente da Maddalena creato, dalla sua vivente presenza sul rettangolo luminoso; e dell’ambiente che dà, alla crisi stessa, la risoluzione che vedremo. In questo l’indulgere del regista su certi elementi piuttosto che su altri. La condanna di un mondo, quello di Cinecittà, è comprensibile in tutta la sua estensione e il suo valore al di fuori e oltre certi fenomeni che tutti conosciamo e solo se messa di fronte e in rapporto al comportamento finale della protagonista. Il suo, si badi, non è un ’no’ soltanto a un ambiente specifico più o meno corrotto e ai ‘cadaveri’ che lo popolano, ma anche e sopra tutto a un mondo più estensibile e generale: a tutto un modo, cioè, di concepire la vita e il lavoro senza rispetto alcuno dei sentimenti umani e dei sacrifici. Dei ‘cadaveri’ Visconti sente ancor oggi il lezzo. Di quei ‘cadaveri’ che si «ostinano a credersi vivi» e nei quali ci si imbatte spesso andando per certe Società cinematografiche: «Avviene di loro, di fronte ai vostri argomenti, come di un personaggio di Poe, che, già morto da un pezzo, ma conservato intatto nel corpo da una possente volontà magnetica, questa venendogli d’improvviso a mancare, si corrompe e si discioglie in men che non si dica. Vivono, ignari del progredire del tempo, del riflesso di cose tutte estinte, di quel loro mondo trasecolato, dove si circolava impuniti sui pavimenti di carta è gesso, dove i fondalini vacillavano al respirare d’un uscio improvvisamente aperto; dove in perpetuo fiorivano rosai in carta-velina, dove stili ed epoche si fondevano e confondevano magnanimi, dove, per intenderci, Cleopatre ‘liberty’ in ’toupé’ vampireggiavano (mettendoli alla frusta) ombrosi pezzi di Marcantonii in busto di balene». Il tempo di questi nostalgici d’anteguerra è finito, «e loro sono rimasti; e non si sa perché». La parentesi di libertà, in cui fu concesso alle giovani forze del nostro cinema di dire chiaro e tondo ’i cadaveri al cimitero’, già sta per chiudersi. In pochi sono accorsi a sollecitare i ritardatari, ad aiutarli, «con tutti i riguardi (che non si abbiano a far male) a introdurre anche l’altro piede nella fossa». E cosi, come ieri, come nel ‘41 — anno al quale risale la nota del Visconti — le forze più vive del nostro cinema, impazienti «per tante cose che hanno da dire», continuano ad aver come bastoni tra le ruote troppi cadaveri ostili e diffidenti. Diffidenti sopra tutto del realismo, che fondono e confondono con formule ed etichette. Di quei ‘cadaveri’ — che sono poi quelli che gli impediscono di condurre a termine La terra trema — Visconti sente dunque ancora il lezzo. E che siano rimasti, lo dice chiaramente; e chiaramente dimostra loro alcuni equivoci cui son legati. Qual è il soggetto di Oggi, domani, mai, l’ipotetico film per il quale si cerca una bambina? Qual’è il cinéma, quali sono i film che in Bellissima si condannano? Risposte si possono a esempio trovare nella sequenza del fotografo, e in quelle in cui Maddalena e Spartaco guardano dal cortile lo schermo dell’arena, e in quel sonoro e quei dialoghi cinematografici che si insinuano nel seminterrato. Il soggetto di Oggi, domani, mai, tratto da un romanzo di una ipotetica Cibarelli (e quante Cibarelli, purtroppo non ipotetiche, offrono materia a produttori e registi), inizia con ’’lui che dice a lei che la lascia…”. E anche i dialoghi che si insinuano nell’intimità della famigliola sono alla Cibarelli (Peverelli?): falsi, da fumetti, da film d’evasione. Tutte ‘fole’, come dice Spartaco e, alla fine, anche qualcosa d’altro (“un rompimento de…’’). E nel ricercare, attraverso un concorso, un attore non professionista per un soggetto la cui inequivocabile natura viene individuata dalle poche parole sopra riportate, si sottolinea uno degli equivoci in cui produttori e registi incorrono di fronte al realismo inteso come formula: la formula dell’attore preso dalla vita per essere inserito in una vicenda che con essa non ha rapporti reali, storici, culturali e via dicendo. (E che si possano creare film veramente realistici anche con attori professionisti, Bellissima è un classico esempio). Né Visconti dimentica di fare accenni (accenni, ma eloquenti) a certe influenze che a tali film, ai film di evasione, sono legate. Non a caso, ma per sottolineare un ben determinato costume di chiara derivazione, la prima bambina esaminata da Blasetti imita Betty Grable e, rifacendone modulazioni di voce e movenze erotiche, alza la gonnellina e mostra le esili gambe. Non a caso, ma per il medesimo scopo, la seconda bambina canta Arrivano i nostri e, chi più chi meno, specie quella che si ’esibisce’ dal fotografo, sono prototipe di bimbe prodigio, le cui leziosità hanno imparato e imparano quotidianamente dalle varie Shirley Temple e Margaret O’Brien. Siffatti aspetti indicativi e sintomatici interessano Visconti più che una satira del cinema (sia essa sentimentale o romantica come in Le silence est d’or o cinica e cruda come in Sunset Boulevard di Wilder): più che fenomeni di dominio pubblico, diffusi anche attraverso settimanali illustrati o libri come Hollywood Cemetery di Liam O’Flaherty. I quali fenomeni, del resto, non vengono dimenticati: come quelli delle raccomandazioni o di certi commerci, in cui la donna viene intesa soltanto nei suoi attributi di femmina. È proprio Annovazzi, il piccolo avventuriero di Cinecittà, che dice a Maddalena: “In Italia si vive di raccomandazioni. Mi raccomando, si ricordi, le assicuro. E poi ci si dimentica. E perché ci si dovrebbe ricordare?” E lo dice per carpire alla donna danaro, promettendo un mazzo di fiori alla moglie del produttore, una bottiglia di profumo all’amante del produttore, che in molti casi è la moglie del protagonista. “Nel cinema accade’”, spiega. Significativa, in proposito, un’altra sua battuta, quando Mimmetta dice che Glori le ha promesso una parte (quello stesso Glori da cui Annovazzi aveva ottenuto, attraverso la ragazza, il provino di Maria): ’’E così finisce che tu devi ringraziare me”. Ogni donna ha il suo fascino, ricorda il titolo del film il cui cartellone pubblicitario spicca nel Bar Imperiale, dove Mimmetta telefona a Glori e Annovazzi compera la lambretta usata col denaro sottratto a Maddalena.
È proprio in questa limitazione, o meglio scelta di elementi riguardanti il mondo del cinema, ma pur ampi nel loro intimo significato, che si deve intendere Bellissima più film su un personaggio e la sua crisi che su un particolare ambiente. Al quale, del resto, — e per raggiungere risultati positivi non poteva essere diversamente, — sono legati altri ambienti tipici: quelli in cui vive Spartaco (il quartiere Prenestino, la trattoria in riva al fiume, la casetta che sta costruendo come socio di una cooperativa di operai) e quelli che Maddalena frequenta come infermiera a domicilio (l’appartamento della mantenuta, dell’avvocato) o per preparare la figlia al provino (lo studio fotografico, la sartoria, la scuola di ballo). Alcuni di questi, se a prima vista possono sembrare a se stanti e pretesti per introdurre figure macchiettistiche, tali non sono, proprio perché tipici nel senso che essi servono a meglio individuare e suggerire i sentimenti dei protagonisti, a determinare le azioni. E come la sequenza del fotografo, a esempio, spiega tra l’altro la natura di Oggi, domani, mai, quelle della trattoria e di Maddalena che sale le scale dello stabile in costruzione, approfondiscono atmosfere e situazioni popolari e popolaresche; mentre le scene della sartoria, delle lezioni di ballo e di recitazione contribuiscono a dar corpo alla drammatica confessione della piccola Maria al padre: ‘’Sono stanca’’. Il mondo del cinema dato dunque, come abbiamo visto, in una tipizzazione eloquente (essenziale al riguardo la parte in cui Maddalena con la figlia assiste, nascosta, alla proiezione del provino) vuole essere e rimane al di fuori di ogni interferenza di carattere scandalistico di facile presa. Rimane costantemente attiva una cosciente presa di posizione, una ragionata critica ai metodi e ai generi citati e al malcostume che ne deriva. Sul piano di una siffatta critica sono indicativi i temi musicali tratti dall’Elisir d’amore. E non ci riferiamo soltanto all’ammonimento iniziale, al ‘’Non fate strepito, non fate strepito’’ che immediatamente segue le parole dello ’speaker’ (“Potrà essere la vostra e la sua tortuna’’) e continua nella colonna sonora mentre si attua, sullo schermo, uno stacco visivo: si passa cioè dalla sala di trasmissione radiofonica a un viale di Cinecittà gremito di mamme e bambine strepitanti. L’effetto non è puramente fisico, acustico, o di facile contrasto a rovescio. Esso va oltre, riallacciandosi al finale, quando la tranquillità è tornata in Maddalena, e Maria dorme finalmente serena. Un altro motivo donizettiano si sofferma a sottolineare questa serenità ritrovata: “Quanto è bella, quanto è cara, più la guardo e più mi piace’’. È quasi un monologo interiore di Maddalena estrinsecato musicalmente. Gli occhi della donna, che ha risolto la crisi facendo soffrire anche la figlia, ora ne vedono la reale ‘bellezza’ in tutta la sua estensione soggettivamente materna, in tutta la sua significazione umana e giusta. ‘’Non fate strepito, non fate strepito”. Ed ecco la preoccupazione, in Maddalena, di non svegliare la figlia. Né quando le si vuol far firmare il contratto, né di fronte alla tenerezza ritrovata, ai sentimenti che esplodono sul letto di ferro: “‘Non la sveglià, non la sveglià, la ragazzina”. Altre fasi musicali — esse sono poche e intervengono quando hanno una funzione espressiva — sottolineano la critica accennata. Si veda l’entrata di Blasetti con il suo stato maggiore nel teatro di Cinecittà, mentre si prepara a esaminare le aspiranti attrici. La musica, qui, è la stessa che annuncia l’ingresso di Dulcamara. E nelle vesti di un moderno Dulcamara è appunto visto Blasetti; nelle vesti, cioè, di un venditore di illusioni che spaccia un farmaco (il cinema) dalle virtù portentose. L’elisir d’amore, nel nostro caso, è quello che infiamma le speranze di tutte quelle madri. E come Nemorino, Maddalena, per aumentare la dose del liquore, per ottenere raccomandazioni (’’Voglio che mia figlia sia la più raccomandata di tutte”) e preparare Maria al provino (lezioni di recitazione, di ballo, vestito ecc.) si priva delle cinquantamila lire che dovevano servire per la casa e intensifica il lavoro di infermiera. Le trombe che introducono Dulcamara in Donizetti diventano, in Bellissima, un ‘leit-motiv’. Intervengono quando Maddalena confessa a Spartaco di essere stata a Cinecittà: quando dice al fotografo “voi sapete a che cosa servono’’ (le fotografie); quando tenta di convincere il marito (’’Ci avemo sotto mano una forfuna, non buttiamola via così’’). Quando, cioè, Maddalena si illude che l’avvenire della figlia consista nel cinema. A questo motivo ritornante se ne contrappone un altro, di una significazione umana più profondamente sentita e interiormente suggerita: il pianto di Maria, i suoi singhiozzi. Che sono al centro della costruzione drammatica, e hanno una risonanza di una inconsueta e pregnante sofferenza. Piange, Maria, accanto a una vasca di Cinecittà dove la madre la ritrova mentre sta giuocando un giuoco di bimbi; piange dal fotografo (’’Tira su quella faccia, andiamo”’) e dal parrucchiere; durante la lezione di ballo e durante il litigio tra madre e padre.
E piange ancora dalia pellicola impressionata del provino e sulla panchina, mentre in lontananza la musica si arresta nel Circo, e si odono applausi.
In questa sequenza, che soltanto esteriormente può apparire letteraria (per certi riferimenti e risonanze), i singhiozzi di Maria si confondono con quelli di Maddalena. Al pianto della figlia per la prima volta si aggiunge quello della madre. La crisi è risolta. Prefazione alla crisi, il colloquio con Iris (l’interprete di Sotto il sole di Roma) e la scena in cui Maddalena e la figlia assistono di nascosto alla proiezione del provino. ”Signora mia”, dice Iris a Maddalena, “io non sono un’attrice. Mi hanno preso due volte perché ero il tipo che facevo per loro. O essere attori sul serio, di professione, o non illudersi e perdere un impiego. Perché ne son venuti tanti fuori di disgraziati, con l’illusione del cinema… E ora eccomi qui, al montaggio. Più nessuno m’ha chiamata”. Il dubbio assale Maddalena. Ma spera ancora; ”Mica per tutte sarà uguale. Sarebbe un grosso guaio. Senza rimedio. Ci ho puntato tutto”. Nasce in lei un sentimento di protezione materna completamente opposto a quello d’avvio. Di fronte allo spettacolo incivile e inumano che offre la ‘gente del cinema’, ai commenti feroci sulla goffaggine della bimba cosi sola e indifesa su quello schermo dove la sua immagine è alterata dal cerone e dal bistro che le lacrime solcano quasi grottescamente; di fronte a questo spettacolo Maddalena copre il viso alla bimba. Ma il suo è ancora un atto di istintiva ribellione (e protezione) materna. Perciò, legata ancora com’è alla sua illusione, domanda a Blasetti e a quelli che hanno definito nana la figlia: “Ma ve fa tanto ridere sta ragazzina? Non ci avete nessun rispetto dei sentimenti degli altri, dei sacrifici? Ma perché vi divertite tanto? Che ci avete da divertirvi?’’. Domanda sì, sdegnata, tutto questo. Però, prima d’andarsene, aggiunge: ‘’Signor Blasetti, abbia pazienza, non mi mandi via così, senza un po’ di speranza’’. E Blasetti commenta: ‘’Questo è il cinema. Sono cose che combiniamo noialtri’’. Questo, e altro, diciamo noi. Soltanto fuori di Cinecittà, sulla panchina deserta resa ancor più solitaria dalla notte, Maddalena prende coscienza che il ‘guaio’ ha un rimedio, che la speranza invocata è in realtà un ulteriore ed estremo sopruso perpetrato ai danni della figlia, la quale, come ogni creatura umana, ha diritto alla sua vita e non può essere costretta a subire quella artificiosa e falsa che un egoistico amore materno le vorrebbe imporre. Cade cosi nella madre il mito di Dulcamara. Il farmaco portentoso, l’elisir le si rivela un veleno che servirebbe solo a rubare l’infanzia a Maria. Sicché, quando il farmaco arriva, cioè quando gli aiutanti di Blasetti chiedono di scritturare la bambina, a Maddalena non si pone nemmeno il problema della scelta. La risposta è “no”. ‘’E come la volete la ragazza? Coi capelli lisci o ricci? Come ve piace de più. Come ve fa diverti? Non l’ho messa al mondo per fa divertì nessuno. Per me e per suo padre è tanto bella. Andate via di qui’’. Poi, rivolta al marito, aggiunge: “Cosa aspetti a di’ a sti signori che mia figlia non lo farà mai il cinematografo? Cacciali via, cacciali via”. Ritrovato l’equilibrio (equilibrio umano e sociale) la fuga tentata da Maddalena si risolve in un approdo cosciente al reale. E lo spettatore ‘’romantico’’ che trovasse questa risoluzione controproducente, verrebbe automaticamente a mettersi dalla parte di Glori allorché questi, insistendo presso Maddalena, le dice; ‘’Due milioni è una cosa che capita una volta sola nella vita. Lei non può dare un calcio alla fortuna”.
La differenza sostanziale tra Visconti e De Sica è in fatti riscontrabile nell’impostazione e nella risoluzione realisticamente critica di rapporti umani, che in Bellissima è il rapporto tra genitori e figli. Visconti, in altre parole, non cade mai nel sentimentalismo e nel romantico: cioè, non evade. Ed è in proposito molto significativo che un uomo di cultura, e di larghe esperienze umane è letterarie come Alvaro, abbia rilevato: «Finora non era accaduto che nella nostra letteratura di vedere cosi chiaramente il rapporto tra genitori e bambini, i figli come pegno di un avvenire migliore, come rivincita da una condizione sociale indistinta. Non c’è un istante di questo film in cui le parole, gli sguardi, le premure, le bruschezze, le tenere antipatie e i furibondi trasporti della madre, cessino di creare questo personaggio infantile».
Guido Aristarco