Uragano d’estate, il nuovo film diretto da Luchino Visconti.
Un’opera cinematografica sulla guerra di indipendenza del 1866. Straordinario apparato logistico. La storia d’amore tra una nobile veneziana e un ufficiale austriaco

Verona settembre 1953

Abbandonata Verona, l’auto attraversa paesi i cui nomi ci ricordano i banchi di scuola: San Martino, Sommacampagna, Custoza. La guerra di indipendenza del 1866 ci viene incontro dai muri sbrecciati, dai ponti in rovina, dai fortilizi diroccati, dalle lapidi murate sulle case, dai piccoli monumenti nel mezzo dei borghi. A Valeggio ci troviamo in piena retrovia. Dinanzi a una scuola rumoreggiano i soldati: barbe lunghe, chepì, divise azzurre, imbiancate di polvere, vecchi fucili dalla lunga canna, Sono i bersaglieri di Lamarmora, in attesa della battaglia.

Agli incroci delle stradine di campagna i cartelli indicatori guidano, I viottoli si inseguono attraverso campi ondulati, si lanciano su brevi ponticelli di legno in un paesaggio composto e silenzioso, ricco di tutti i toni del verde. Il Mincio scorre impercettibilmente, tranquillo, turbato ogni tanto da radi spari in lontananza.

D’un tratto, dietro una curva della strada, ci vengono incontro i bersaglieri accampati. Da un lato del campo vi è una triplice fila di covoni, e dietro a ciascuno un soldato sta in piedi, appoggiandosi stancamente ad un fucile. Un trombettiere attende il momento di intimare l’allarme e il colonnello è impaziente, mentre lo staffiere tiene il cavallo per le briglie. Dall’altro lato del campo alcuni contadini vanno costruendo altri covoni, Covoni davvero strani, bizzarri, covoni falsi, nonostante la panciuta apparenza: su un traliccio di legno vien sistemata la paglia e qui legata, in modo che si possa trasportare con facilità. Perché, naturalmente, questi non debbono essere veri covoni, così come quelli non sono veri bersaglieri, quell’altro non è un vero colonnello, nè questa una vera battaglia. È un film, naturalmente, e si tratta, come suggerivano i cartelli indicatori, di Uragano d’estate, la nuova opera di Luchino Visconti.

Visconti è qui, in piedi, accanto alla macchina da presa.

— Che cosa stai girando ora?

— Nulla di importante, Un passaggio, soltanto un passaggio, Laggiù c’è Girotti, che è un partigiano piemontese, e che passa su un carretto in mezzo a un campo di bersaglieri. Un passaggio.

In cerca della luce

Per questo «passaggio» stanno qui da alcune ore, Aldo Graziati (l’operatore meglio noto come Aldo) va su e giù per il campo con l’esposimetro in mano, a misurare l’intensità della luce, Sembra che le cose non gli vadano bene. Scruta il cielo e attende quel particolare momento che sa lui, quando il sole sarà come vuole lui in modo da produrre gli effetti che lui ha già chiari negli occhi. Intanto fa spostare i grandi riflettori montati sulle impalcature, e alimentati dai gruppi elettrogeni che ronzano nascosti nella macchia.

Poi la luce sembra buona. Visconti spiega la scena: il trombettiere deve venire avanti, fino a due metri dalla macchina da presa. Il colonnello deve salire a cavallo, Girotti deve muovere il carretto. Il trombettiere suona, e i bersaglieri escono di dietro i covoni. Tutto qui, sembra una cosa da nulla. Ma è certo che questa scena sarà ripetuta almeno una decina di volte.

Il produttore, Domenico Forges Davanzati, ha l’aria impaziente. Per lui il tempo che passa ha un significato estremamente concreto; non si tratta di grani di sabbia che cadano dalla clessidra. Prende al volo l’occasione di sfogarsi.

— Siamo diventati tutti generali e colonnelli, e dobbiamo risolvere situazioni drammaticissime. Dobbiamo mantenere e addestrare quattrocento cavalli, da sella e da tiro. Abbiamo centocinquanta attori secondari e centinaia di comparse. Si figuri che le comparse che compongono l’esercito austriaco, Visconti ha voluto fossero reclutate in Alto Adige e in Austria. Siamo al centro di una battaglia, e dobbiamo combattere. Abbiamo quindici macchine e torpedoni per il trasporto degli attori da un punto all’altro del campo di battaglia; quattordici autotreni per il trasporto dei gruppi elettrogeni e degli altri attrezzi, compresi i covoni semoventi; autocisterne per il trasporto di carburante e autobotti per it trasporto di acqua porabile sugli infuocati luoghi della battaglia.
A dire da verità, quando siamo giunti non vi doveva essere stato un disguido nel traffico delle autobotti, perché di dietro una collina venivano grida disperate «acqua! acqua». Gli aiuto-registi sembravano un po’ turbati da quegli appelli, e chiedevano se fosse il caso di far tacere gli assetati, promettendo loro acqua minerale. Ma Visconti rispose, con un pizzico di sorridente cinismo: — Lasciate stare! Sulla colonna sonora sembreranno le grida dei feriti.

Forges Davanzati, tutto preso dalle sue cifre, continua ad enumerare una accozzaglia di numeri, di dati, di risentimenti; «250 covoni trasportabili… per girare alle otto bisogna mettere in moto la macchina a mezzanotte… io mi sveglio la notte con l’impressione che piova e non mi riaddormento più… i colpi di cannone costano mille lire l’uno… i colpi di fucile 35 lire… Visconti voleva sparare diecimila cannonate… non è troppo? Tutti si sono dovuti far crescere la barba perchè lui non vuole barbe finte… Abbiamo dovuto istallare una rete di collegamenti telefonici per dare gli ordini alle varie pattuglie e postazioni di artiglieria… e c’é la questione dei fili!…».

La questione dei fili appare particolarmente angosciosa. Sembra che Visconti, giunto nel tranquillo paesotto, si sia guardato attorno, abbia rabbrividito, ed abbia detto: «Qui non voglio vedere un filo elettrico». Aveva tutte le ragioni, perché effettivamente nel 1866 i fili elettrici non c’erano, ma Forges. ha dovuto. sudare molto per riuscire a convincere le tre società elettriche della zona a sospendere gli allacciamenti e a gettare linee provvisorie ed invisibili. Così Ia questione dell’asfalto sulle strade, e altre simili difficoltà hanno occupato le notti insonni di produttori, organizzatori e tecnici.

Scontri pericolosi

Di tecnici ce ne è di ogni tipo. In questo momento due personaggi dall’aria di colonnelli della riserva sembrano in contrasto su come un soldato debba eseguire il saluto: consultano i sacri testi, danno il responso. Questi tecnici sono fondamentali, sopratutto negli scontri. Giorni fa, sul ponte Visconteo, lo scontro è stato così duro che han dovuto portare
alcune comparse all’ospedale e abbattere un cavallo che era rimasto ferito. Da quel giorno, fatti i debiti scongiuri, all’ospedale di Verona ci sono sempre alcuni posti liberi per la troupe di Uragano d’estate. E due ambulanze son pronte qui vicino.

Ora Visconti ha un attimo di tranquillità.

— Dove girerai, oltre che qui?

— La battaglia, vedi, è soltanto la cornice della vicenda, che è una vicenda di amore. Il film si doveva chiamare Senso, ed era questo il titolo del racconto di Boito da cui è tratto il soggetto. È la storia dell’amore tra una aristocratica signora veneziana e un giovane ufficiale austriaco. Gli attori, come sai, sono Alida Valli e Farley Granger. Girerò quindi anche a Venezia, a Verona, a Vicenza, in ville patrizie e in antichi palazzi. In questi ambienti si svolge la storia di amore, illuminata dai riflessi della guerra e dai riflessi dei grossi movimenti politici e sociali che stanno venendo a maturazione.

La strada del realismo

— E la battaglia, che funzione ha nel film?

— Si tratta della battaglia di Custoza, anzi di un momento della battaglia, storicamente vero, cioè il cedimento dell’alta sinistra dello schieramento italiano in seguito all’accerchiamento da parte delle truppe dell’arciduca Alberto. Tale episodio, ampiamente trattato in monografie storiche e in opere di arte militare, mi interessa sopratutto per i riflessi che ha nella ristretta cerchia dei personaggi principali. In quanto al modo di guardare la battaglia c’è un solo modo: quello corale, quello stesso dei pittori ottocenteschi che ce ne hanno ricordato di simili. A Verona girerò l’arrivo della signora veneziana subito dopo la battaglia di Custoza: situazione interessante, quella di una città alle spalle di un campo di battaglia. A Venezia, cercherò dì giungere nei quartieri popolari come a Piazza San Marco, come nei palazzi patrizi.

— Per te questo è un film nuovo, diverso dagli altri?

— Direi di no. Non mi allontanerò certamente dalla strada del realismo. Non sono affatto convinto che il soggetto debba imporre una variazione dì stile, e certamente non dovrò staccarmi dai personaggi, soltanto perché essi sono vestiti in modo diverso da me. Per la tematica, questo film si riallaccia in certo modo ad Ossessione: eguale vicenda di due esseri in un ambiente su cui incombe la tragedia. In quel film l’amore dei due protagonisti portava ad un delitto, fatale soluzione di un conflitto di interessi e di caratteri; qui la disfatta militare, la tragedia corale di una battaglia perduta sommerge la misera fine di una significativa avventura di amore.

— E il colore?

— È technicolor. Ma anche qui, non sono dell’opinione che il colore, come il costume, debba imporre una variazione di stile. Il colore non è un capriccio, una aggiunta, una esteriorità. Io voglio ricreare con il colore il tono generale di questo ambiente, così come cercherei di fare la stessa cosa in bianco e nero.

Il tramonto che già si annuncia dà alle cose, ora, un colore dolce e tenue, riposante. Ormai tutto si smobilita, qui, perché la luce non è più buona per girare. A mezzanotte la macchina si metterà di nuovo in moto, per preparare un altro «passaggio», forse un piccolo scontro. Sulla via del ritorno dinanzi alla scuola del paese, dove sono accampati i «bersaglieri», barbe lunghe, sembra quasi di udir suonare la «ritirata».

Tommaso Chiaretti