A colloquio col regista nell’ultima giornata di degenza a Zurigo
Ricoverato in agosto per gravi disturbi vascolari, Luchino ora completamente ristabilito, trascorrerà la convalescenza a Cernobbio: lavorerà alle rifiniture del prossimo film Ludwig
Zurigo, 22 settembre 1972
«Non posso fare a meno di essere contento di partire. Questo mese, qui, all’ospedale cantonale di Zurigo è stato lungo. Il mese più lungo della mia vita. Dovevo però lasciarmi curare e sono stato curato molto bene. Sono stati molto bravi e umani. Ecco, è stata una grande cosa trovare tanta bravura nel professor Krayenbün, nel professor Siegentheler, nel professor Kasdaglis, nelle infermiere, in tutta la gente che si è occupata di me; ma è stato anche molto importante trovare che erano molto buoni, molto amici, tutte carissime persone. Io ho potuto metterci soltanto la disciplina, la pazienza: mi stupisco anzi di essere riuscito a dominare il desiderio, il furore di uscire».
Luchino Visconti dice questo ed è ormai all’ultima giornata d’ospedale. Domani dovrebbe essere già in Italia, a Cernobbio, sul lago di Como. L’uomo è davvero felice, fisicamente felice di questo ritorno. Il viso è disteso, riposato, fresco di rasatura. È da poco uscita dalla stanza all’ultimo piano dell’ospedale dove Luchino Visconti è stato in cura, la barbiera, uno dei pochi personaggi fissi nel rituale quotidiano del notissimo malato. La ragazza è bionda, sottile, porta un camice molto attillato, a minigonna quasi. È disponibile a sorridere con educazione.
«È brava, questa ragazza barbiera?».
«Molto sicura, rapida. Fa la barba col busto eretto. Dice che quando si curva le sembra di invecchiare. Un poco come le dattilografe che lavorano impettite».
Luchino Visconti è vestito come un signore che fra poco uscirà di casa per una gita non impegnante. Pantaloni grigi, un maglione con una sciarpa al collo, sta seduto in poltrona, con le spalle alla finestra, la vestaglia è sull’attaccapanni, calza ancora le pantofole. Le pantofole, appunto, sono le sole cose che restano dell’uniforme da clinica.
«È stato difficile dover obbedire, una volta tanto?».
«Mi sono comandato di obbedire. Ho fatto miei gli ordini che mi venivano dati. Si trattava di obbedire a me stesso in definitiva. Attraverso questo filtro, diciamo pure con questo trucco psicologico, la cosa è diventata possibile. Non potevo fare altro, ma mi dispiaceva molto, mi feriva star fermo, rinunciare e rimandare, Non è il caso di sprecare retorica sulla voglia, sul bisogno di lavorare, di creare. Per me il lavoro è il modo di essere, è la mia realtà, come è pensare e parlare. All’improvviso, sono stato costretto a fermarmi.
Al momento del mio incidente, chiamiamolo così, stavo ancora finendo il montaggio del Ludwig; insieme con il montaggio c’era da completare il lavoro per le due edizioni del film, quella inglese e quella italiana. E questo non è stato fatto, per tutto questo mese. Ero già avanti con la preparazione della tetralogia di Wagner, in programma per la Scala, un’opera ogni anno, a partire dal ‘73: un progetto che può accendere un momento affascinante, irripetibile in una vita intera. Stavo studiando anche la Louise per Spoleto: un’altra occasione molto intensa. Stavo studiando ancora cose per il cinema. Credo che non rinuncerò a niente. Questo è stato soltanto un tempo di attesa: adesso torno in Italia e ricomincio».
«Ma, anche qui, in ospedale ha lavorato».
«Sì, per quanto è stato possibile, E mi ha aiutato a non sentirmi isolato, tagliato fuori dai miei interessi. Ho ripassato tutta la musica del Ludwig. In stanza mi è cresciuta così giorno per giorno una piccola montagna di nastri, di dischi, di cassette. La musica è una protagonista invisibile, ma fortissima di ogni film, di questo in particolare. Quasi tutto il Wagner, dai funerali di Sigfrido al duetto d’amore del Tristano al preludio del Lohengrin, quelli diretti da Toscanini, entrano nel mio Ludwig. Lo Schumann che è nella parte dedicata all’infanzia dello stesso Ludwig è quello eseguito da Franco Mannino. Ci sono poi delle canzoni popolari bavaresi, Ho voluto risentire tutto, parecchie volte, tantissime volte. Quello della musica era il linguaggio più vero, più profondo di Ludwig. Insieme con il film ci sarà anche il disco dell’intera colonna sonora».
«Come ha organizzato la ripresa, che cosa ha fatto preparare a Cernobbio?».
«A Cernobbio, io vado a villa Erba, ospite di mio fratello Edoardo e delle mie sorelle Ida e Uberta. Uberta è qui e partirà insieme con me. Villa Erba è una casa alla quale siamo tutti molto affezionati, una autentica villa lombarda, tanto cara. Quando ci ritroveremo tutti là, ci sembrerà di essere tornati molto indietro nel tempo, quando eravamo bambini e vivevamo all’ombra di nostra madre. Penso che sarà un’ora molto bella quella in cui staremo insieme, adesso che tanti anni sono passati e noi siamo diventati dei vecchi ragazzi, soggetti magari, eccezionalmente, ad avere una piccola malattia… Sì, deve essere proprio un vezzo delle persone di una certa età quello di ammalarsi, forse per cavarsi poi il gusto di raccontare l’esperienza d’essere stati in una clinica svizzera. I miei fratelli debbono aver visto con un certo terrore che cosa hanno preparato per me, per il mio lavoro: a villa Erba è entrata addirittura una moviola, uno strumento che mai e poi mai i nostri genitori, non parliamo dei nostri nonni, avrebbero pensato, proprio lì, in quella casa. Comunque, Edoardo, Ida, Uberta, per avere la sicurezza che starò tranquillo, che non mi muoverò per il resto della convalescenza, hanno lasciato passare anche la moviola e tutto il resto. Starà con me e si occuperà degli altri aiutanti, Enrico Medioli, amico sceneggiatore. Credo che faremo tutto il lavoro, e bene anche. Fra un mese, se tutti i piani si realizzano, dovrei essere di nuovo a Roma».
«Tutte le partenze hanno un risvolto. Questo andar via da Zurigo che cosa dice a Luchino Visconti?».
«Mi lascio dietro ùn certo episodio della mia vita e mi rimetto per la strada di sempre. È difficile dire quello che sto provando e quello che proverò quando materialmente avrò messo piede fuori dall’ospedale. In un mese, qui, la gente mi è diventata familiare, molti mi pare di averli conosciuti da chissà quanto tempo. Sento di avere degli altri amici adesso, degli amici in più, degli amici che, prima non sapevo nemmeno che esistessero».
In corsia hanno acceso le luci, dietro una tramezza a vetro opaco una capo infermiera sta scrivendo il documento di dimissione dall’ospedale per Luchino Visconti. La partenza avviene in segreto. Automobile o, per maggiore sicurezza, ambulanza, non si sa. Sono pronti tutti e due i mezzi. Decideranno.
Vittorio Notarnicola