Roma, novembre 1945

Il teatro romano di prosa ha avuto un intensissimo ottobre. I critici han lavorato senza requie; fino a quattro «prime» di seguito; i giorni dal 16 al 19 passeranno alla storia della nostra missione (non lo chiamerete certo un mestiere) col nome glorioso di «Le Quattro Giornate». La parte del leone, forse in virtù della chioma leonina della sua primadonna, se l’è fatta la compagnia Adani, con quattro sulle dieci tra le commedie, novità o riprese, recitate tra il 2 e il 30 ottobre (che fa una commedia ogni 2,90 giorni).

La compagnia Adani s’era presentata il mese innanzi all’Eliseo con due commedie una più insulsa dell’altra (Tre rosso dispari di Denys Aniel, e Ma non lo siamo un po’ tutti? dell’inglese Lonsdale) poi, il 3 ottobre, sparò uno dei calibri più grossi che aveva approntati: La macchina da scrivere di Cocteau, della quale i lettori sono già stati informati. La sparatoria cominciò allegra ma all’ultimo fece cilecca. Era giusto. Cocteau, dopo aver fatto dell’avanguardismo, come tutti i migliori hanno fatto al tempo giusto (cioè tra gli ultimi anni dell’altro secolo e i primi di questo), quando poi tutti avevamo capito che era tempo di smettere l’azione di punta, non per tornare indietro ma per tentare, fatta piazza pulita dei rottami, le costruzioni nuove, Cocteau, dicevo, ha sì capito anche lui che occorreva finalmente instaurare l’ordine nuovo (Rappel à l’ordre, se non erro, è proprio di Cocteau, e teorizza richiami che già erano stati fatti in Italia, in questo senso, subito al principio del dopoguerra). Lo aveva capito, ma fu di quelli che per liberarsi dall’avanguardia hanno fatto marcia indietro. La situazione l’ho spiegata, proprio a proposito d’un altro lavoro di Cocteau, molti mesi fa. Non sto dunque a ripetermi. Più tardi ho letto una prefazione, che allora non conoscevo, messa da Cocteau innanzi alla stampa di questa Macchina; ove la situazione è accettata e spiegata con una immagine. Non ho sott’occhio il testo, ma dice press’a poco così: «quando il cuscino è caldo, si sposta il capo per appoggiarlo a un punto fresco; quando poi anche questo è riscaldato, ci possiamo rimettere sul primo che è tornato fresco». Grave errore, non meno grave dell’errore comune contrario; che sta nel credere che la storia d’una data arte sia un procedere, un miglioramento, un perfezionarsi. Il fondo vero dell’arte è sempre lo stesso; talvolta un poeta sa arrivarvi per una strada nuova, e allora la strada diventa una moda, un’abitudine: per qualche tempo non ci si accorge che continuiamo a ribatterla senza più arrivare al detto fondo. Cocteau non è arrivato al fondo, anzi ne è rimasto lontanissimo, tanto con quella (Parenti terribili) quanto con questa.

Le altre novità offerte dalla compagnia Adami furono: Ragazzi d’oggi (il 16 ottobre al Quirino) di Roger Ferdinand, forse la più stupida tra quante ne abbiamo udite in dieci mesi, e non è dir poco; e Penelope del solito Maugham fastidiosissimo; da ultimo, a chiusura della ottobrata, Adamo di Achard. Era aspettata con curiosità, certamente morbosa quale il primo ingresso sui nostri palcoscenici della inversione sessuale mascolina: l’altro sesso era stato servito già con la mediocre Prigioniera di Bourdet. Non meno mediocre è questo Adamo, al quale il pubblico battagliò: consuetudine ottima, necessaria alla esistenza d’una vera vita teatrale; ma avrei voluto vederlo risorgere per qualche cosa di più degno, e soprattutto poggiare su un piano meno equivoco. Perché la battaglia fu ingaggiata non sul piano artistico (sul quale la commedia non meritava che di cadere) ma su quello moralista; le disapprovazioni nacquero con l’intenzione manifesta di deplorare che un autore portasse, comunque trattato, un siffatto argomento sulla scena; e chi a esse violentemente si oppose, non plaudì la commedia ma plaudì appunto quello che gli pareva un grande coraggio: il coraggio di scegliere quell’argomento; applaudivano quasi a crearsi un ridicolo atteggiamento di superiorità. Non s’accorgevano di mostrarsi altrettanto filistei che gli altri; invece che battaglia d’arte, fu gara tra due opposte cafonerie. Condannati dunque e la commedia e i suoi fischiatori e i suoi plaudenti, ci è dovere lodare a gran voce gli interpreti, tutti eccellenti: la Adani, nella parte d’una fanciulla improvvisamente abbandonata dall’amante, seppe trascorrere tutta la gamma delle espressioni più varie che possono nascere dalla disperazione, strappando applausi a scena aperta nei passaggi più difficili e pericolosi, con un’arte piena di foga, di abbandono, di sincerità, di convinzione. Gasmann, nella parte d’un direttore d’orchestra, composito tra l’esteta e l’invertito, si mantenne sul crinale periglioso tra l’analisi realistica e la trasfigurazione caricaturale, e riuscì perfetto in tutto, dal trucco alla Stokovski al portamento, ai toni, ai gesti tutti uno per uno’ portanti e vigilatissimi. Li fiancheggiarono a maraviglia Carraro sobrio e sicuro, Calindri sempre tanto persuasivo e penetrante. Pianeggiante e avviluppante sul tutto e intorno al tutto, la regia di Visconti ricca d’un colore tra i doloroso e il divertito, di ritmi variati e imprevisti. Questa recitazione e regia, e la stolta battaglia, hanno determinato l’artificioso ma pieno successo della commedia, con una lunga serie di repliche, che si è interrotta solamente per la partenza della compagnia.

Massimo Bontempelli