A sessantatré anni, il «vecchio leone» ha dato con il suo ultimo film una lezione di alto professionismo alle giovani leve del cinema italiano. Oggi, egli afferma, non esistono nuovi registi, non si sono opere valide e non è neppure possibile contare su attori preparati.
Roma ottobre 1969
Fuori, sulla via Salaria, i clacson scandiscono spavaldamente «ta-tarata-ta-ta, viva la Roma!», le macchine procedono lente con un insopportabile stridore di freni, i drappi giallo-rossi vengono sventolati dai finestrini con urla barbariche: i romani tornano dal derby e la strada aristocratica, chiusa fra il parco di Villa Savoia e le palazzine dai balconi ancora fioriti di gerani, sembra un fiume tumultuante.
Dentro, al n. 366, nel villino color mattone sepolto fra gli alberi e difeso da un muro di cinta altissimo, il “gran signore” giace nella poltrona di cuoio. La luce di una lampada gli disegna un cerchio netto sulla vestaglia di cachemire rosso. Intorno è la penombra, il silenzio.
Il “gran signore” è sofferente. Riceve in pigiama, e si scusa. È squassato da una tosse cavernosa, e chiede perdono. Non desidera essere fotografato in quello stato: potremo mai comprenderlo? Era tentato persino di rinviare l’appuntamento, ma non si viene meno alla parola data, non si disdice all’ultimo momento l’impegno assunto. Così Luchino Visconti ci accoglie ugualmente, alle 17 in punto, nella sua incredibile casa arredata con paraventi Coromandel e divani immensi, obelischi di marmo rosa e grandi specchiere del Settecento e pile di libri ammucchiati sulle sedie: una scenografia di raffinata decadenza che richiama alla memoria quella del suo ultimo film, La caduta degli dei.
«Mi dicono che il pubblico segue la pellicola con estrema attenzione — comincia a dire il “gran signore” in un sussurro, rinserrandosi nella vestaglia con un brivido.»
«L’ho visto ieri a Milano, — faccio io — e da tempo non mi capitava di avvertire fra gli spettatori una tensione così carica.»
«Mi dicono anche che la gente, dopo averlo visto, ne parla a lungo, discute, non ci dorme la notte.»
«E infatti io ho avuto degli incubi.»
«Mi è giunto all’orecchio che gli industriali milanesi, al contrario, non si siano mostrati molto entusiasti. Anzi hanno reagito gelidamente.»
«Non faccio fatica a crederlo.»
«Ma questo è bene, questo è salutare. Perché non si può vivere nascondendo la testa nella sabbia, come gli struzzi.»
Dall’ampia vetrata s’intravvedono le foglie degli alberi accendersi all’ultimo raggio di sole. Una cane abbaglia furioso.
«La tragedia della famiglia Essenbeck, i grandi industriali tedeschi dell’acciaio (un po’ Krupp, un po’ von Thyssen) protagonisti de La caduta degli dei, potrebbe avere delle analogie con i nostri giorni? La condanna di un certo capitalismo degli Anni Trenta che, pur di mantenere il potere, stringe alleanze inverosimili e determina l’ascesa del dittatore, potrebbe servire di ammonimento a noi?»
«Non ci troviamo nello stesso momento storico. — dice Visconti, ritrovando vigore nelle parole e nei gesti — Oggi l’Europa è profondamente diversa da quella che, allora, stava preparandosi all’autodistruzione. Credo che non sia possibile trovare analogie con la situazione attuale. Ma è anche vero che, se c’è da trarre una lezione dalla vicenda degli Essenbeck, questa è la lezione della storia: che è sempre valida, ieri come oggi, oggi come domani, ma può anche non insegnarci nulla.»
«Nella Caduta degli dei c’è una frase che riassume il suo credo di uomo e di artista: “Bisogna che qualcuno ne parli”, dice l’unico membro della famiglia proscritto dai nazisti e messo al bando dallo stesso clan per le sue idee democratiche. “Bisogna che qualcuno ne parli perché gli altri sappiano e ricordino”. Ora, se è vero che il film fa meditare le generazioni che hanno vissuto e sofferto la seconda guerra mondiale, in quale misura è valido per i ventenni, impegnati nella contestazione sui modelli di Mao e di Castro?»
Il “gran signore” si passa la mano sugli occhi affaticati. Sembra in preda a una stanchezza mortale. Il 2 novembre compirà 63 anni. Questo film, che appena uscito fa già tanto parlare di sé, affolla le platee come non accadeva da tempo e trova la critica unanime nel giudizio entusiasta, questo film riempie ora la sua vita, nella letizia e nel tormento. Hanno scritto di lui: «Il vecchio leone non ha perduto i suoi artigli», «Ecco un’opera che dimostra come il cinema italiano non sia morto», «La nuova giovinezza di Visconti», «La forza, il vigore, la maestria, il serio professionismo del regista».
«I giovani vanno a vedere il mio film, e, mi assicurano, sono fra i più attenti del pubblico. Io sono convinto che non sia necessario parlare di Mao o di contestazione per interessare le nuove generazioni. Il discorso che faccio è quello di sempre: contro la dittatura, contro la distruzione della personalità umana ad opera del tiranno. E questo discorso i giovani lo comprendono benissimo.»

Si rincantuccia nell’angolo della poltrona, butta indietro la testa (una maschera aquilina segnata dal tempo) mentre le mani nervose si afferrano ai braccioli. «D’altronde», prosegue, «confesso di non essere riuscito ancora a decifrare questa gioventù. Non so se quelli ai quali stiamo assistendo sono fenomeni di passaggio, oppure sono destinati a rimanere la componente principale delle nuove generazioni. Se così fosse, non saprei cosa prevedere per il futuro. Dico soltanto che non si può distruggere tutto, negare tutto, come vogliono questi ragazzi. Ora, io non mi sento di raccontare con il mezzo cinematografico una storia che rappresenti soltanto la negazione. Ci dev’essere una proposta, ci dev’essere, anche nella condanna più spietata, almeno un aspetto positivo che dia luogo alla speranza. No, io appartengo alla “vecchia guardia” e per descrivere il dramma di questi giovani ci vorrebbe un regista più vicino a loro…»
«Le nuove leve: i Samperi, i Bellocchio, i Faenza, i Bertolucci, per esempio.»
«Non mi venga a dire che questi registi hanno raccontato in maniera valida storie che vanno al di là dell’interesse personalistico. Bertolucci ha qualcosa in sé, ma gli altri… I giovani registi non hanno il coraggio di affrontare temi di ampio respiro. Non s’impegnano, mancano di fiato, di talento, di fantasia. Diciamo pure che difettano di professionismo. Oggi, tutti s’improvvisano registi. Con i risultati che sappiamo. Le nuove leve, come le chiama lei, sembrano affascinate soltanto dalla barzelletta: è troppo poco per fare uno spettacolo cinematografico, non le sembra? La loro unica preoccupazione è di natura erotico-sessuale.»
«Un filone, quello pornografico, che ha fatto guadagnare parecchio…»
«Vede, nel cinema italiano abbiamo avuto momenti diversi e contraddittori. Noi della “vecchia guardia” – i Rossellini, i Monicelli, i Fellini, i De Sica – abbiamo inventato qualcosa partendo da zero, ossia dal cinema dei telefoni bianchi. Con Ossessione, io ho aperto nel ’43 la strada al neorealismo. Eravamo pochi, ed eravamo a corto di quattrini. Abbiamo raccontato storie aderenti al nostro tempo, storie che volevano dire qualcosa. Poi è venuto il benessere e, come dice Ennio Flaiano, più circolavano soldi meno idee venivano fuori. Si è cominciato a imitare gli americani, lo star system, la produzione in serie. L’arte cedeva il posto alla speculazione. E così abbiamo avuto la speculazione del western all’italiana. È passata, e adesso abbiamo la speculazione pornografica, che per fortuna sta esaurendosi. La presunta libertà di dire tutto sul sesso è una finzione di pessimo gusto: non ci si affranca dai tabù ricorrendo alla pornografia. Semmai, è il contrario. E il successo di cassetta di queste pellicole trova la sua ragione, mi vergogno a dirlo, nell’atteggiamento provinciale di un certo pubblico italiano, che non ci fa onore.»
«Il quadro che lei fa del nostro cinema attuale non è dei più rosei…»
«Perché? Lei stessa mi ha detto che il pubblico risponde al mio film con vivissima attenzione. Ma in questi giorni la gente accorre anche a vedere la pellicola di Federico…»
«Le è piaciuta?»
« Ero con Federico a Venezia, per la “prima” del Satyricon. Abbiamo cercato di fargli tante feste perché era piuttosto giù di morale: il pubblico non aveva reagito come lui sperava. Poi sono andato a rivedermi la pellicola qui, a Roma, da solo e in tutta tranquillità. Certe cose che mi avevano affascinato a Venezia, non mi hanno deluso nemmeno rivedendole: per esempio, la sequenza del Minotauro, il rapimento dei ragazzi. Fellini non poteva fare di più, avendo in mano soltanto dei frammenti. Forse, a tratti, il film manca di respiro, si avverte una certa stanchezza…»
«E lei, come avrebbe raccontato il Satyricon?»
«Oh, questi temi sono così lontani da me! Non credo che mi proporrei mai di affrontarli…»
«Qual è il suo giudizio sull’ultimo Pasolini?»
«Lei ha visto Porcile?»
«No.»
«Nemmeno io. Quindi, non parliamo di Pasolini».
Squilla il telefono. Il suono è lieve, ovattato. Da un apparecchio interno gli chiedono se vuole prendere la comunicazione. «Helmut?», domanda a bassa voce Visconti. «Sono impegnato in un’intervista», e sorride con un breve gorgoglio di compiacimento. «Ti richiamo io alle otto, va bene?»
Il centralino telefonico personale, la presenza in casa di feroci alani, la fedelissima governante, i domestici dal volto impenetrabile, una certa aria di mistero che protegge la villa dalla curiosità degli indiscreti, tutto questo fa parte della «leggenda Luchino». L’aristocratico lombardo (suo padre, Giuseppe Visconti conte di Modrone, musicofilo, bellissimo uomo, aveva sposato Carla Erba), che fino ai trent’anni si occupa esclusivamente di cavalli da corsa e poi, all’improvviso, dopo un viaggio a Parigi, scopre il cinema, diventa aiuto-regista di Renoir e trova la sua vocazione. Il nobile «rosso» che, ai funerali di Togliatti, monta la guardia d’onore alla salma, ricco eppure attratto dalla miseria degli umili, comunista militante una volta, ma adesso non più tanto convinto se dice che «non si può stare sempre sulle barricate». Il regista di cinema, di teatro, di melodrammi, di balletti, che ha imposto al mondo dello spettacolo italiano la dittatura di un professionismo serio con il supporto di una cultura autentica. Il «vecchio» Visconti accusato di estetismo e di decadente compiacimento, dato più volte per spacciato.
«È vero che si sta preparando a girare La morte a Venezia di Thomas Mann?»
«Sì, firmerò il contratto questa settimana. Poi affronterò un tema dalla Recherche di Marcel Proust».
“Offro sempre al pubblico uno spunto di meditazione”
«Come mai ha scelto due autori che oggi sembrano ignorati?»
«Non credo che Mann e Proust non possano dire più niente alle nuove generazioni. Mann ha parlato per tutti, Proust rimane valido fino a quando l’uomo sentirà l’esigenza di cercarsi e di ritrovarsi in se stesso. E poi, è vero, io mi ripeto. È inevitabile che l’artista sia monocorde: racconta sempre la stessa storia, ha in mente gli stessi personaggi, è ossessionato dagli stessi incubi. Io, per esempio, descrivo la società attraverso le vicende di un gruppo familiare. È stato così ne La terra trema, in Rocco e i suoi fratelli, nel Gattopardo, nella Caduta degli dei. Considero la famiglia come la cellula che riflette in modo microscopico la situazione generale. Da quel nucleo primigenio deriva il nostro modo di essere, di pensare, di comportarci. E la società si specchia in questa cellula: se la famiglia è malata, anche la società non gode buona salute. Ecco perché, denunciando le lotte tribali e i fallimenti di una cellula familiare, io cerco di salvarne il simbolo».
«Una volta, lei ha detto di nutrire una sconfinata fiducia nell’arte, nella sua funzione equilibratrice. Non crede che oggi questa funzione venga soffocata da altri interessi: il lavoro, il divertimento, la fretta, una certa aridità?»
«Al contrario. La società tecnologica, contro la quale si contesta tanto, porta inevitabilmente a valorizzare di più l’arte. La gente avverte la necessità di fermarsi per meditare. Ed io, ogni volta che mi accingo a un nuovo lavoro, ho la presunzione di offrire al pubblico uno spunto di meditazione».
«Ricorrerà anche questa volta ad attori stranieri?»
«Il mercato italiano non offre molto. A parte due o tre nomi, i nostri attori hanno, in genere, una provenienza casuale. Ci sono stati alcuni casi clamorosi che poi si sono rivelati inconsistenti. Il discorso da fare, a questo proposito, è uguale a quello sui giovani registi: c’è troppa improvvisazione. Insomma, non è possibile contare sugli attori italiani».
«Tornerà al teatro?»
«Non ci penso nemmeno!»
Visconti ha un gesto inorridito. Accende la sigaretta con una smorfia di leggero disgusto, si drizza sul busto come una divinità offesa che sta per scagliare i fulmini della sua ira. «Ma non vede cosa è capitato a Strehler? Giorgio è una persona seria. Ai signori del consiglio d’amministrazione dello Stabile di Roma non chiedeva la Luna: voleva che gli fosse garantita l’autonomia artistica. È il minimo che un regista dotato di personalità possa pretendere, non le pare? Ha battagliato giorno per giorno con gente che di teatro s’intende poco o niente, assessori del Comune, funzionari, capisce? Doveva discutere su dettagli miserabili. Insomma, ha fatto benissimo a rinunciare. E dove si potrebbe andare a lavorare, in queste condizioni? Il Piccolo Teatro di Milano ha avuto una stagione fallimentare. C’è lo Stabile di Genova, ma anche lì mi dicono che il programma viene quasi imposto. Poi ci sono le compagnie che io chiamo di conduzione familiare, nomi sconosciuti che spuntano ad un tratto, per capriccio. L’arte non ha nulla da spartire con questi signori».
«Che visione catastrofica per il futuro dello spettacolo nel nostro Paese».
«Ma no, perché?», sospira Visconti. «Io non ho perso le speranze, sa? Può sempre venire fuori un nuovo talento, il genio… Chissà?»
Carla Stampa