Roma, novembre 1969
«La scelta di un autore piuttosto che di un altro da parte di Visconti — scriveva Renzo Renzi nella sua prefazione alla sceneggiatura de Le notti bianche — non è mai avvenuta per semplici ragioni esterne, di vicenda, sempre presupponendo il ritrovamento di motivi culturali in cui il regista scorgeva un’attualità buona per lui». Questi motivi si sono andati un po’ smarrendo nelle ultime scelte, tanto da far pensare quasi a una sorvegliata amministrazione di amori e influssi del passato, vecchie regie, letture, antiche ossessioni sue e altrettanto antiche attribuzioni della critica, da Tolstoj a Thomas Mann, a Camus. Rimane però il dato di una personale ruminazione, attraversata da risentimenti autobiografici e da letture recenti, in cui filtra cupamente l’umore del tempo. Ma questa ruminazione, questo filtro, avvengono quasi nel senso contrario alle sollecitazioni esterne, quasi più per giustificare una estraneità e un rifiuto che per ottenere una consonanza e una partecipazione. Il momento più alto e sincero di questa negatività di fondo fu certamente Senso, ma altrettanto si può dire del pur minore e più sbrigativo Vaghe stelle dell’Orsa e perfino del Mersault viscontiano ne Lo straniero. Donde deriva questa situazione e dichiarazione di crisi (diversa, ma abbastanza analoga alla condizione di indifferenza e di «noia» dei personaggi moraviani, coetanei di quelli di Visconti) che si perpetua di film in film? Ormai la critica ha illuminato questo punto, e non insisto. L’appartenere a una generazione vissuta nel mezzo tra un tempo vecchio e uno nuovo, vivendo intimamente, nella coscienza, la dissonanza tra mondo famigliare e società intorno; osservando cioè due corruzioni dal diverso timbro, e riscontrandole con un distacco e impossibilità di partecipazione. Col risultato, in Visconti, di un richiamo mitico al passato per la fin troppo lucida e dolorosa avvertenza del presente. Questa posizione, anche se attenuata, pareva permanere ne Lo straniero, ben strano film e soggetto in tempi di contestazione studentesca, e in Vaghe stelle, con la sua chiamata sepolcrale, funeraria.
Si potrebbe dire che anche La caduta degli dei parte da una posizione di rifiuto. Di fronte agli argomenti volgari e «minori» del cinema nuovo, quello dei discepoli di Godard, i Samperi, i Faenza, i Carmelo Bene, il regista di Ossessione richiama i grandi argomenti e inalbera la cultura, i vecchi tempi quando il cinema era una cosa seria. È illuminante a questo proposito la sua intervista con Stefano Roncoroni, che ha curato per la ormai famosa collana «Dal soggetto al film» di Cappelli il volume dedicato appunto a La caduta degli dei: «…in generale, oggi il cinema è poco autentico, poco profondo, poco sentito. Non riesco, nei giovani e nei giovanissimi, ad afferrare la loro originalità, la loro vera natura. Mi sembrano delle scopiazzature…». In un tempo che rifiuta sempre di più le piattaforme del passato, le mitologie, i simboli e gli stessi insegnamenti dei vecchi, Visconti si mette a dare una lezione di altri tempi, a «fare qualcosa di veramente esemplare dal punto di vista di una situazione storica che può condurre a un certo tipo di delittuosità e di criminalità».
La caduta degli dei è una storia di grandi protagonisti, e questa è già una scelta. Questi personaggi devono essere subordinati a un discorso storico, o la storia è solo il loro sfondo, il personaggio in più, il deus ex machina a disposizione dei singoli per la loro recita, e allora abbiamo il melodramma, come è appunto nel nostro caso. E questo non avviene casualmente. Visconti ha bisogno di momenti catastrofici della storia, come grandi palcoscenici in cui possano emergere gli individui con le loro crisi. È dunque un rabbioso ritorno agli eroi, all’individualismo tragico, al conflitto personale uomo-storia. Interrogato sulle motivazioni di questo film, Visconti ha dato una duplice risposta, dicendo da un lato di aver voluto, nella dissoluzione di una famiglia di capitalisti, raccontare l’inizio del nazismo; in sostanza i membri della famiglia Essenbeck sono i mostri a livello artigianale e di famiglia, dopo i quali ci sarà la mostruosità nazista a livello industriale. In questo senso Götterdämmerung finisce appunto dove comincia la storia del nazismo. Se così fosse, noi avremmo un film veramente storico, e sapremmo come avvenne l’incontro tra capitalismo portato alle sue estreme conseguenze e totalitarismo, nazionalismo, ideologia e politica del potere assoluto. Ma Visconti ci dà anche la spiegazione opposta, quando dice sempre a Roncoroni: «C’era una mia idea di fare la storia di una famiglia nel cui seno avvengono dei delitti che rimangono praticamente impuniti». E così egli incaricò il direttore di produzione Notarianni di dire a Nicola Badalucco, sceneggiatore e scrittore: «La situazione è questa, c’è una famiglia così e così, che vive nel periodo dell’inizio del nazismo in Germania e in cui avviene questa catena di delitti. Digli che butti giù lui per conto suo un’idea». È coerentemente con questa seconda versione che egli dirà poi: « Il film non è rimasto, tuttavia, un film storico, ma è qualche cosa di più; a un certo momento i personaggi diventano quasi dei simboli, cioè non è più un film sulla nascita del nazismo, ma è un film ambientato in quel momento per provocare certi scontri e soprattutto per provocare certe catarsi nei personaggi».
Basterebbe questo, prima ancora di avere guardato il film, per rendersi conto dell’ideologia che lo dirige, e che è indubbiamente un’ideologia non marxista ma, anzi, di un aristocratico illuminismo. La caduta degli dei è infatti soprattutto una saga di distruzione e di morte, che il regista descrive affascinato ascoltando lontane risonanze, dal Riccardo III di Shakespeare agli Ossessi di Dostoevskij.
Se è così, diventa discutibile non solo l’affermato valore didascalico del racconto, di voler cioè far sapere come è potuto nascere il nazismo, ma anche il preteso sapore marxista dell’interpretazione della storia. Visconti infatti considera questa storia come conclusa, che basta insegnare perché non si ripeta, così come faceva Shakespeare con le sue fosche vicende rinascimentali che bastava conoscere nel loro orrore poiché si era consapevoli che esse riguardavano un mondo scomparso con i suoi orrori. Ma noi possiamo dire che questa storia è conclusa e non ci riguarda, che a noi basta collocarla esattamente nel suo tempo evocandone compiutamente, filologicamente, gli orrori nel clima letterario di Wagner e di Thomas Mann, nella filosofia di Nietzsche e di Hegel, nella cronaca cruenta della Germania tra il 27 febbraio 1933 (incendio del Reichstag) e il 30 giugno 1934 (la notte dei lunghi coltelli, così detta perché in essa avvenne a Bad Wiessee la strage degli S.A., i reparti paramilitari del partito nazista che Hitler considerava ormai pericolosi)? No certamente. Non solo, ma anche quella interpretazione del capitalismo-nazismo è da riconsiderare tanto in fase di partenza che al suo punto d’arrivo. Visconti crede di aver identificato una degenerazione del capitalismo come luogo di passaggio all’orrore nazista scatenato da alcuni grandi «mostri» dell’alta borghesia. Ma qui vi è già una contraddizione (a parte la validità di questa interpretazione storica ispirata forse al Reich sul nazismo come perversione) perché lo scatenamento dei mostri è determinato proprio, come in un ciclo elisabettiano, dalla impunibilità assicurata dalla storia con l’inizio stesso del nazismo. La grande borghesia industriale tedesca è una specie di supermondo abitato da dei che, come scrive (su ordinazione) Badalucco, «ha voluto evocare e sprigionare le forze del Male, e che brucia se stessa nel giro di pochi anni». Qui ha ragione su «Sette giorni» Sandro Zambetti, quando esclude che il ricorrere alla utilizzazione emblematica degli schemi freudiani costituisca un modo valido per affrontare concretamente, con metodo storicistico, i fatti del passato recente: «La cosa vale finché serve a rappresentare un processo di dissoluzione (quello della classe aristocratica) ma non regge il peso di un reale confronto storico: quel che manca ne La caduta degli dei in altre parole è proprio il capitalismo, tutt’altro che dissolto fino a questo momento e quindi irrilevante, nonostante ogni sforzo in contrario, per la sensibilità di Visconti. Così anche il nazismo, quale forma contingente del capitalismo stesso, risulta sostanzialmente estraneo». Troppo sbrigativa infatti è l’affermazione che il nazismo e il fascismo furono l’ultima e mostruosa fase del capitalismo arrivato alla sua estrema soluzione, e che «naturalmente non può preludere altro che ad un’evoluzione in senso socialistico», la storia è più complessa.
Non mi voglio addentrare ulteriormente in una esplorazione ideologica, già fatta da altri più lucidamente; basta qui osservare agli effetti di quest’ultimo film di Visconti che da una premessa d’ordine storico (analisi dell’inizio del nazismo) si passa invece a una narrazione d’altro ordine, cioè alla drammatizzazione ed esasperazione di un momento «non ordinario» ma «eccezionale» della storia giunta al diapason di un processo di dissoluzione, e che trova il suo momento più significativo nel conflitto dei suoi eroi, esaltati a protagonisti ed emblemi del male. Come assiste il regista a questo conflitto? Potremmo dire con un sentimento contraddittorio e dialettico di orrore e di attrazione, quasi contemplando lo svolgersi di un mistero. In breve, anziché la scoperta del nazismo come forma storica del capitalismo, assistiamo alla liberazione nel male della borghesia capitalistica dietro permesso e sollecitazione del nazismo. Questa liberazione è tragedia (la tragedia della negatività assoluta) ma anche un privilegio, il privilegio riservato della tragedia e della esperienza assoluta. E perciò colloca l’autore e noi in posizione di spettatori.
Così è l’esperienza di Martin, soprattutto; Martin è il Franz, riferendoci a Senso, cioè colui che su una base iniziale di malattia e di colpa segreta va alle radici del suo male, fino a uccidere la sua nascita con la profanazione del grembo della madre, per andare in fondo a se stesso. La sua volontà di abiezione, vestendo la divisa di Hitler, e salutando nazisticamente i cadaveri della madre e di Costantin, è dettata da una esigenza di carattere psicologico, quella di toccare il suo fondo per conoscersi, arrivare a una degradazione totale che sia una presa di coscienza.
Visconti ha fatto lo stesso discorso e ha percorso lo stesso itinerario in altri film. Lo ricorda appunto Renzi nel saggio citato: «La vera concretezza del personaggio consiste, dunque, nel problema psicologico-morale poiché il cammino del suo dramma lo deve condurre a “una presa di coscienza”, che è sempre dolorosa (appunto perché si scontra coi fatti) ma che è, insieme, atta a farlo trionfare del suo destino, aprendogli una prospettiva radicalmente diversa: provocando in lui una trasmutazione di valori. È quella che gli esistenzialisti chiamano la dialettica del salto… Il fondo di tale personaggio porta, quindi, con sé un “sottosuolo” di malattia, di errore, di peccato, che è fonte della sua solitudine; che è spesso la sua stessa solitudine…».
Negli altri film il personaggio portava con sé il suo male, e con lui l’autore si confessava in un gioco complicato, fatto di identificazioni e di contrapposizioni, tramite forme velate e vari filtraggi culturali. Questo avviene anche qui, ma l’operazione di complicità e rifiuto è compiuta più a freddo e con un certo raggelamento. I motivi di questa distanza, se non sono dettati da un processo di acquietamento e di resa, derivano probabilmente dal terreno sul quale si è messo il regista scegliendo il nazismo come rossastra nuvola d’ira. Visconti non riesce forse a identificarsi con questa storia e i suoi personaggi, non riesce qui a dialettizzare fra società che muore e società che nasce, fra un negativo assoluto e un positivo che sia tale. È vero che la definizione in negativo di tutta la famiglia Essenbeck, non lasciando barlumi di speranza, depone ottimisticamente sui valori («qui, dice giustamente Visconti, dovevo finire sperando che non ci fosse speranza, che non ci fosse salvezza per questi mostri»); ma siamo appunto nella interpretazione del nazismo come momento eccezionalmente mostruoso e staccato da noi del capitalismo, e la mancanza di un collegamento morale finisce per ottenere due effetti: da un lato il contemplarlo non come dato storico, reale, da analizzare e spiegare e in cui distinguere fra strutture e facciata, ma nei modi ambigui dell’estetica. Ecco allora che l’orrore del castello diventa tutto il teatro della storia, storia che si spiega soltanto nelle sue classi dominanti, anzi, nemmeno classi dominanti ma personaggi emblema, simboli e parti del male.
Si tratta allora di un copione usuale, che rientra abbastanza nelle regole del teatro elisabettiano o, in termini più semplici, del romanzo sceneggiato (con qualche malizia si è parlato di romanzo televisivo stile Majano) dove basta assegnare delle parti. Il regista cioè mentre tenta una certa partecipazione e immedesimazione, con le tecniche che già gli conosciamo: inasprimento della sceneggiatura e semplificazione dei personaggi, processo di esasperazione ottenuta con la riduzione dei fatti e delle psicologie, radicalizzazione dei processi di degradazione e incupimento dei contrasti, ecc., tuttavia si rende alquanto autonomo da quella storia abnorme e poco attendibile che non ha più riferimenti attuali e vive alquanto indisturbata, e la tratta come occasione di teatro. Quasi come se non facesse un film per dire qualche cosa di vitale, ma al contrario, se per lui si trattasse di dire qualche cosa di originale per poter fare un film.
Seconda conseguenza, riscoprendo così nei fatti nuovi una struttura e una mitologia permanente, l’autore non può fare a meno di creare un profondo contrasto, quella che Moravia chiama dicotomia, fra personaggi e ambiente storico. Infatti egli è obbligato a cercare negli elementi della decorazione scenografica i termini storici di conflitto che invece si sublimano ed emblematizzano nei personaggi. Già Nicola Badalucco e l’altro sceneggiatore, Enrico Medioli, l’avevano esposto al rischio di mescolare ai toni interni della tragedia il materiale cinematografico di repertorio sull’inizio del nazismo. Visconti ha evitato lo scoglio, portando il film sempre di più dentro le quinte, tuttavia le sequenze della lunga notte dei coltelli sono di tutt’altro sapore rispetto al resto del racconto.
La spia di questo atteggiamento impegnato ma aristocratico, colto, e in fondo conservatore del regista di La terra trema è soprattutto nel linguaggio impiegato. Visconti crede che la Storia è rimediabile, e quindi non è una metafisica, ma la sua speranza nel nuovo è sempre più debole. Rimane il fatto che vi è una degradazione dei fatti, che dai conflitti tragici e dai grandi protagonisti, gli dei, si discende oggi, secondo lui, alla scarsa significanza della storia collettiva e comune. Per scoprire il senso della storia e i meccanismi che la regolano, unico maestro è lo spettacolo delle grandi crisi del passato, dove l’uomo si scontra al massimo della sua tensione contro la coscienza che egli ha della sua impotenza e del fatto di essere già giudicato. La coscienza storica, che pone appunto lo storicismo come un assoluto, permette alla sua moralità solo la testimonianza e il gesto di morte, non gli offre alternative possibili che il suo disperato prendere coscienza. Ecco allora che la sede più consona per questo irrigidimento antistorico dei fatti moderni non può essere che il melodramma, attraversato da grandi affreschi funerei e da sequenze di affocata confessione autobiografica, dal sapore dostoevskiano. La parte migliore del film è quell’inizio aristocratico e morbido in una luce luciferina. Guenther che suona Bach, e poi i preparativi degli ospiti, e quella festa che diventa una ambigua contraffazione dell’Angelo azzurro, con Martin addobbato da falsa Lola che canta «Kinder ein Abend, da such’ ich mir was aus». E poi la solennità e la drammaticità di quel pranzo di famiglia, in un silenzio teso, dove le parole hanno significati misteriosi e inquietanti. È stato già osservato che tutta questa prima parte dove si impianta il clima decadente ma non senza risalti critici della grande famiglia è ispirato ai Buddenbrook, anche se si tratta di due storie diverse. Mentre (a partire dal titolo) la magniloquenza melodrammatica, le trombe urlanti e i colori accesi, corruschi, i fuochi e gli eccidi si ispirano a Wagner che appunto diede una grandezza nibelungica e una magniloquenza melodrammatica al decadentismo della grossa borghesia guglielmina. Ma c’è anche da dire che è proprio questa interpretazione estetizzante, questa struttura e magniloquenza a creare un piedistallo falso, perché affonda nella convenzione e nel ritratto che il capitalismo prenazista fece di se stesso. «Visconti, scrive Moravia, ben a ragione, conserva la maschera eroica che quello stesso decadentismo aveva fabbricato, Visconti insomma non ha voluto o non ha saputo strappare questa maschera e mostrare il vero piccolo borghese, alienato e autodidatta del nazismo».
Un’altra spia è il ricorso a Shakespeare. Thomas Mann e Wagner creano il clima base e il timbro sonoro al melodramma, Dostoevskij e l’autobiografia dànno materia alle parti più personali e sofferte, dove talvolta l’autore rischiosamente si identifica e si perde, come nel funerale di Joachim, nell’incontro madre-figlio nel solaio (così simile a due episodi di Senso e de Il gattopardo), nella sequenza, anche se un po’ distaccata e volutamente raffinata, della bambina ebrea, e soprattutto nell’episodio dell’incesto. Altre letture, come La storia del Terzo Reich di Schirer e La notte dei lunghi coltelli di Lorrain Kemski, sono all’origine della scena del massacro di Bad Wiessee, in quell’atmosfera così torbida e crudelmente analitica. È una serie di mediazioni (verso il clima letterario per l’annuncio del nazismo, verso la cronaca per l’individuazione del suo carattere e la sua episodica) che vogliono permettere all’autore di costruire una atmosfera morale e psicologica. Il ricorso al teatro elisabettiano invece deve essere diversamente spiegato, ed è certamente un altro sintomo della riduzione di un dramma ben più inquietante e ampio a una storia da contemplare e rinchiudere in archetipi immobili. Si è detto del Macbeth e del Riccardo III, e della loro difficile componibilità con le mene meschine e senza fato delle famiglie industriali sotto il nazismo. È difficile passare per buona questa contaminazione culturale, per la diversità del contesto storico. Nel dramma shakespeariano vi è il senso religioso del potere che entra in conflitto con l’affiorare del sentimento individuale (la passione, la gelosia) e con lo stesso sentimento moderno del potere come piacere e bene valido di per sé, come tecnica demoniaca ma affidata all’astuzia laica e alla ragione umana. Naturalmente i suoi processi, le sue catene di fatti erano dettati da una convenzione precisa. Infatti, consumato tutto il male, e contemplato il suo orrido spettacolo, l’eccezione era chiusa. Il male era un debito pagato alla divinità del potere. Qui invece l’azione ripetendo quegli schemi si fa meccanica, quell’Aschenbach-Jago è poco attendibile, quei delitti puntuali sono scontati in partenza.
Con tutto questo, non si deve giungere alla conclusione che si tratti di un film tutto negativo e inutile di Visconti, ma soprattutto che questa descrizione del «volto demoniaco del potere» agli albori del nazismo non è convincente sotto l’aspetto della critica storica, e quindi come operazione culturale resta alquanto irrisolto. Appaiono schematiche e facili le contrapposizioni, di comodo i fatti esterni che incidono sul destino della famiglia Essenbeck, con così precisa diligenza di giorni e di ore. Troppo squadrati i contrasti, troppo coscienti e culturalmente appuntiti i riferimenti storici e ideologici in personaggi che dovevano avere una coscienza incerta e una abitudine a nascondere le idee sotto gli interessi.
Tuttavia il film piace e fa pubblico, dando quasi ragione al didascalismo scetticheggiante dell’autore. I suoi affreschi di morte fanno cassetta, i suoi personaggi emblema fanno discutere, quel quadro storico così relativamente approfondito, ridotto a un rituale di abiezione, è stato accettato. Che cosa significa questo? Per quali ragioni La caduta degli dei fa spettacolo? Sarebbe troppo facile, anche se è un po’ vero, dire che il tipo stesso delle scelte fatte dall’autore è la garanzia di una resa spettacolare, quella che non garantiscono i discorsi ben più ellittici e acuminati di Jancsó in L’armata a cavallo o ne Il silenzio e il grido. Si può anche pensare che questo nostro tempo con le sue difficoltà e i problemi insolubili, con i suoi tempi lunghi, possa provocare una richiesta di spettacoli forti dove si abbia una semplificazione manichea delle parti, buoni e cattivi (non come in Jancsó, dove buoni e cattivi compiono lo stesso rituale di lotta e di morte, senza differenza di qualità), negativo e positivo. Poi, nonostante i difetti di impostazione, con la sua struttura tradizionale, classicheggiante, e il rimescolio di note culture, La caduta degli dei, è un film ottimista che rassicura sul bene (i peggiori sopravvivono, nel film ma noi sappiamo che il nazismo sarà sconfitto; i vecchi baroni dell’acciaio qui sono sconfitti, ma noi sappiamo che risorgeranno in un dopoguerra che ne giustificherà la funzione storica conciliandola col regime democratico). Altri suggeriscono che il pubblico, d’accordo con Visconti, non digerisce più i film pretestuosi e speculativi tutti sesso e avventura, e vuole piatti più ricchi di contenuto. Qui possiamo essere senz’altro d’accordo almeno nella speranza, purché questa concessione non significhi anche il suo contrario, e cioè che occorrono film dalla struttura linguistica tradizionale, contro ogni sperimentalismo e innovazione di linguaggio. Il linguaggio è la spia del contenuto, ed è ben difficile anche per lo spettatore separare l’uno dall’altro.
Del resto, l’errore maggiore che si potrebbe fare sarebbe quello di esaltare La caduta degli dei proprio per le ragioni opposte al significato che ha assunto Visconti nella cultura italiana (soprattutto nel cinema dell’immediato dopoguerra) cioè la sua resa attuale (relativa) allo spettacolo, alla facilità, al film di rapida digestione. Se vi è qualche cosa di valido e potente nell’ultimo film del nostro grande regista, è ancora una volta quel sopravvivente senso del tragico, dell’opposizione io-società, coscienza-storia, della necessità di un anche postumo «dichiararsi contro», di un obbligo di esasperare i contrasti in un tempo in cui tutto si doroteizza e diventa unanimistico, amorfo, componibile. In questo senso si spiegano, anche se criticamente non si accolgono come tutte valide, le spezzature e contaminazioni culturali, le misure aspre e spesso sgraziate, gli errori di proporzione e di gusto.
Sarebbe dunque una operazione sbagliata interpretare il ritorno di Visconti a misure classicheggianti di narrazione come una verifica della necessità di un discorso medio che assolva la storia e ne elimini la tragedia. Caso mai sarà invecchiato e si sarà un po’ arreso Visconti, come del resto è umano e inevitabile che avvenga.
Che poi il nostro sia capace di dirigere un film con limpida energia e impegno e profonda serietà, non lo si scopre solo oggi. Basta pensare a quel che ha ricavato da attori così dissimili come la Thulin e Dirk Bogarde, l’inquietante Helmut Berger e il nostro Umberto Orsini, in una breve parte di capitalista liberale, visto da questo Visconti più quieto con una certa simpatia, non certo come un mostro.
G. B. Cavallaro