Uno spettacolo discontinuo, seppure interessante, offre motivi di perplessità. L’ottima interpretazione di Lilla Brignone nelle vesti di suor Marianna de Leyva
Roma, novembre 1967
Giovanni Testori e Luchino Visconti (rispettivamente autore e regista della Monaca di Monza) si sono vistosamente riappacificati in palcoscenico, in mezzo agli attori che ringraziavano dopo il calar del sipario. Ma la stretta di mano fra i due, dopo la notizia di tanti contrasti e di tanta tempesta nel corso dell’allestimento del dramma, non significa davvero che tutto si sia concluso per il meglio: al contrario, nonostante l’entusiasmo fin troppo fragoroso d’una parte del pubblico alla prima rappresentazione, questo spettacolo offre molti motivi di seria perplessità. Non tutti addebitabili al testo, non tutti imputabili alla regia, ma tutti certamente a testimoniare del mancato incontro fra Testori e Visconti.
La vicenda della Monaca di Monza è stata desunta — nell’accertamento delle imputazioni —dagli atti processuali che solo pochi anni fa, dopo tre secoli e mezzo, sono stati resi di pubblico dominio per iniziativa dell’attuale Pontefice, allora Arcivescovo di Milano. I fatti, nel loro svolgimento, sono più o meno gli stessi descritti dal Manzoni, il quale ebbe in qualche modo la possibilità di accedere agli archivi della Curia: la storia di una nobildonna fattasi monaca senza vocazione (Suor Marianna de Leyva, la Gertrude manzoniana) che si lega di torbida passione con un tipo senza scrupoli e che diviene esecutrice ed ispiratrice di delitti, tutti provocati dall’esigenza di togliere di mezzo chi, nel convento, era venuto a conoscenza della tresca.
I documenti recentemente dotati di «imprimatur» non aggiungono molto a quanto rivelato nei Promessi sposi: tutt’al più dilatano il campo dell’esplorazione manzoniana a circostanze delittuose ben più vaste, a complicità più orrende nello stesso àmbito ecclesiastico, a conclusioni persino di grottesca mostruosità (liberata dal carcere a vita cui era stata condannata, nella realtà Suor Marianna venne poi incaricata dell’educazione spirituale delle novizie!). Ma a Giovanni Testori, che è uno scrittore cattolico dai vigorosi impegni morali, importava soprattutto ricercare una accettabile presenza del volere divino nella sorte della tempestosa monaca, il cui furore della carne poté assecondare la natura solo a prezzo di tante colpe, di tanti peccati.
Ed è proprio su questo «perché?» che l’autore concentra l’intero senso dell’opera. Orgogliosamente la monaca, alla presenza stessa del Vicario criminale (poiché qui la storia è articolata in sede di istruttoria processuale) sembra rivendicare il suo diritto di discutere direttamente con Dio i termini, diremmo i verbali, del suo operato. Nessun pentimento sul terreno della coscienza, ma una rabbiosa difesa dell’antico sconvolgimento dei sensi, una tenace esaltazione della prolungata bestemmia che fu la sua relazione con l’amante: torbida, necessaria, delirante urgenza.
Qui va detto che per la statura blasfema del personaggio di Marianna, Lilla Brignone ha trovato accenti di stupenda aggressività, di lacerante erotismo mistico: bravissima e convincente, meritevole di ogni lode. Non altrettanto chiarito, invece, il mondo che attorno a lei si muove e che pure partecipa dei suoi atti e li condiziona: certo, nei panni dell’amante complice, Sergio Fantoni offre una sua credibile carica di diabolicità; certo, come conversa ridotta al silenzio attraverso l’assassinio, Valentina Fortunato esprime una buona plausibilità
popolaresca.
Ma, nel complesso, va detto che il testo (pure se indica molte presenze, pure se suggerisce addirittura una sorta di dannazione barocca rivissuta nella distratta rumorosa moralità dei nostri giorni) si presenza, nella sostanza, come una incalzante requisitoria in forma di monologo. È un dato di fatto da accettare mei suoi limiti o da respingere in blocco: Visconti sembra averlo accettato ma nella prospettiva di strutturare l’opera in una forma drammaturgica più ricca, più dilatata, emotivamente più complessa. L’operazione è riuscita probabilmente solo in piccola parte: si ha la sensazione che, ad ogni momento, lo scarno filone narrativo perda il suo pregio unico — la concentrazione su un trauma della coscienza — per annettersi invece occasioni soltanto esteriori di audacia espressiva.
Così per il ricorso alle scritte luminose di una Monza oramai invasa dal neon e dal consumismo, così per l’intervento di ragazzi e ragazze da Piper Club che concludono il loro shake con un assassinio rituale. Sicché, tutto contesto fra una regìa intenzionata (e non senza motivi) a proiettare i fattacci seicenteschi del convento di Monza nel possibile inferno dell’era del benessere, e un testo senza troppi margini disponibili ad altre contestazioni che non siano quelle proprie dell’anima agostiniana, lo spettacolo va avanti a strappi, tra illuminazioni improvvise, crolli, impennate e sbandate. E lascia intendere che l’indubbio ingegno dell’autore e quello del regista hanno sbagliato, stavolta nel darsi un appuntamento.
Ghigo De Chiara