Dopo le stroncature de La monaca di Monza. Pungente risposta ad alcuni critici. Ridimensionata la polemica con Giovanni Testori, autore della commedia
Roma, novembre 1967
Luchino Visconti ha replicato vivacemente — chiamando individualmente in causa numerosi critici — i giudizi della stampa su La monaca di Monza di Testori, in scena al Teatro Quirino.
In una intervista — rilasciata a un redattore dell’ADN-KRONOS — Visconti ha illustrato i termini dell’intervento da lui svolto sull’opera di Testori ed ha in pratica ridimensionato la storia della polemica intercorsa tra loro.
«Alcuni critici hanno lodato il testo e attaccato la regia — ha detto Visconti —, altri hanno lodato la regia e stroncato il testo. Altri ancora non hanno trovato di proprio gradimento né l’uno né l’altra. Ora, io dico che la critica ha il diritto di dire quello che vuole, ma dovrebbe almeno tentare di non fare tanta confusione; e sopratutto mostrarsi in buona e fede, cosa che da parte di alcuni è venuta meno. Non può esserci buona fede, infatti, quando mi vengono a scrivere che «bastava avere un po’ di orecchio per rendersi conto che il successo era organizzato». Lo spettacolo ha incassato tre milioni e 400 mila lire la prima sera e due milioni la seconda: come si può dire, dunque, che il successo è stato addomesticato? Talarico, tanto per fare nomi, pretenderebbe poi di avere più «orecchio» di me; e questo io lo contesto. lo sono un uomo di teatro e lui no. Io ho «orecchio», se proprio vogliamo parlarne, e lui ha solo un occhio un po’ più storto del mio. Trenta chiamate a conclusione della prima non sono un risultato preordinato».
«E sempre a proposito di malafede — ha proseguito il regista — quando De Monticelli scrive che io ho tradito il testo per paura dei fischi mentisce spudoratamente, perché lui sa benissimo che io non ho mai avuto paura delle reazioni del pubblico. E poi, che significa tradire un testo? Significa che, da regista, ho apportato alcune modifiche, qualche taglio, per renderlo rappresentabile. Ma lui, De Monticelli, se ne mostra seccato e scrive che La monaca di Monza sarebbe dovuto andare in scena con tutte le sue farragini, la sua nota, le tetraggini, la lunghezza eccessiva e via dicendo. Così, lui dice, lo spettacolo sarebbe rimasto fedele allo spirito lugubre della situazione descritta. Benissimo! Ma poi a vederlo, lo spettacolo, chi ci veniva? Solo De Monticelli».
«È da incoscienti pretendere, come alcuni critici avrebbero di fatto preteso, che io mandassi allo sbaraglio uno spettacolo nel quale un gruppo di attori ha profuso tutto il suo impegno economico e artistico. Lo spettacolo è finanziato dagli stessi suoi interpreti, ed è costato dai 20 ai 30 milioni. Non potevo rischiare di mettere su qualcosa che non stesse in piedi solo per far piacere ai vari De Monticelli. E non è vero che io sia risentito per certi attacchi della critica. C’è modo e modo di attaccare. Io sono un attento lettore di ciò che scrivono i critici e non sempre le loro riserve mi dispiacciono. Prendiamo ad esempio Orecchio: la sua critica è stata molto severa, ma lo stesso non mi dispiace, perché il suo giudizio non è gratuito, bensì motivato e soprattuto obiettivo. Non mi dispiace, nonostante le loro riserve, ciò che hanno scritto De Chiara, Tian, Prosperi: si tratta comunque di giudizi in buona fede. È invece in malafede il commento di Radice, ma lo stesso non mi dispiace perché tanto sappiamo tutti che Radice, in teatro, generalmente si addormenta. In conclusione mi è parso che ciò che soprattutto ha scatenato la rabbiosa reazione dei critici (e mi ferisco in specie alla critica milanese) è il successo di un autore italiano. Tutti sostengono la necessità di mettere in scena testi di autore italiano (e in Italia, si sa, non abbiamo uno Shakespeare né un Cecov), ma se poi un autore italiano viene rappresentato ed ha successo tutti si mordono le labbra».
D. — E la sua polemica con Testori?
R. — Non si può dire che tra me e Testori ci sia stata una vera e propria polemica. La verità è che io a un certo punto ho sentito la necessità di effettuare alcuni tagli e, naturalmente, l’ho comunicato a Testori. Lui, allora, mi ha chiesto ulteriori dettagli: voleva sapere cosa avrei tagliato e perché, quanto avrei tagliato, come contavo di risolvere lo spettacolo e via dicendo. Tutte domande alle quali non potevo rispondere mentre ancora ero intento a realizzare lo spettacolo. Così gli ho risposto di aspettare e di lasciarmi fare. In pratica gli ho chiesto di non venire alle prove, perché ciò mi avrebbe procurato un sacco di fastidio e tolta la tranquillità necessaria.
D. — L’idea di trasporre alternativamente al giorno d’oggi la vicenda è sua o già era nel testo?
R. — Già nell’opera di Testori è accennata una certa attualità della storia. Naturalmente io ho dovuto concretizzare tali cenni rendendoli tangibili, visibili al pubblico, reali. In effetti, l’allestimento dell’opera ha richiesto un lavoro di regia un po’ particolare. Il testo in se stesso ha per me molti limiti: è prolisso, eccessivo nel linguaggio e nella lunghezza, costruito confusamente ed in modo non sempre traducibili in “fatto” teatrale. Così ho dovuto molto lavorare per rendere sulla scena ciò che Testori aveva scritto. Si è trattato di un lavoro di chiarificazione, soprattutto, perché davvero al pubblico potesse arrivare qualcosa di intellegibile. L’autore, del resto, ha trovato ottimo il risultato; e questo, per me, è sufficiente.
D. — È andato In scena in questi giorni lo Zio Vania di Cecov con la regia di Pietro Scharoff. Alla vigilia della prima il regista ha dichiarato di avere allestito lo spettacolo in aperta polemica con certe «arbitrarie» interpretazioni cecoviane di Strehler e di Visconti. Lei cosa risponde a Scharoff?
R. — Povero Scharoff. Non posso mettermi a polemizzare con lui. Mi fa tanta tenerezza. Probabilmente ha ragione: forse il vero depositario dello spirito cecoviano è soltanto lui e nessun altro. Del resto non è strano: è così vecchio che forse è stato compagno d’infanzia di Cecov.