A colloquio col celebre regista, che sta per tornare al cinema con un film autobiografico
Roma, novembre 1973
Sulla porta dell’attico di via Fleming non c’è scritto il suo nome: Luchino Visconti. Suono il campanello e mi apre un cameriere. Vengo investita da un’ondata di profumo. Ovunque, intorno ci sono grandi mazzi di fiori.
Enrico Lucherini, il press-agent che da 17 anni segue il regista e l’uomo, mi raggiunge nell’ingresso e mi dice: «Quelle 67 punte di tuberose sono arrivate da Milano e sono di Valentina Cortese».
Entro nel salone pensando che le tuberose sono 67 perché Luchino ha compiuto 67 anni. «Che cosa gli chiederò?», mi domando con una sensazione di sgomento, e non perché mi manchino le domande, ma perché, improvvisamente, ho paura di urtare la sensibilità di quest’uomo, che è stato tanto malato e che, da alcune recenti fotografie, mi è parso magro e stanco. E, naturalmente, dico una cosa sbagliata: «Come sta?». Luchino mi guarda sulla difensiva. L’atmosfera, mi pare, si raggela. «Lei sta benissimo — aggiungo precipitosamente — e io volevo farle gli auguri.»
Mi siedo sul divano celeste polvere mentre Visconti, sorridendo, dice: «Come si fa a nascere il giorno dei morti e a festeggiare con allegria il 2 novembre?». Lo osservo pensando che in fotografia mi era sembrato stanco, con il volto scavato perché i suoi capelli sono diventati bianchi e così corti mettono in risalto gli zigomi alti, gli occhi fondi. Eppure, a parte i capelli, il viso, a ben guardarlo, è ancora quello di una volta. Soltanto le pieghe intorno alle labbra sottili sono diventate più incise. E gli occhi sono gli stessi di quando, sul set dei suoi film, seduto sul carrello della macchina da presa, infaticabile ed esigente, controllava ogni inquadratura, ogni primo piano degli attori e delle comparse. «È stata una festa molto bella — dice il regista — quella del mio compleanno. C’era una grande torta, proprio come quelle dei bambini, ma sulla mia c’erano 67 candeline. Tante, ma io avevo chiesto che le mettessero proprio tutte. Sette erano per me, le altre per Burt Lancaster che compiva nello stesso giorno sessant’anni.»
Rimpiange la sua giovinezza?
«Oh no, come potrei rimpiangere la mia giovinezza? L’ho vissuta tanto e talmente intensamente. Fino a trent’anni io ho cercato di non lavorare e poi… poi mi sono volutamente annegato nel lavoro. Ma, quella giovinezza vissuta così intensamente, è rimasta imprigionata dentro di me. È, ancora oggi, la mia scintilla vitale.» E mi guarda con quegli occhi acuti che, improvvisamente, scopro non essere più quelli di un tempo. Perché una volta Luchino Visconti non concedeva nell’avvicinare gli altri o nel dialogo la tenerezza. In lui colpiva sempre un atteggiamento che lo isolava in una specie di monologo e di solitudine anche quando, gentile e disponibile, si lasciava intervistare. Ero abituata a conoscerlo e ad immaginarlo come chiuso, con la bella testa da fiero intrigante, in una riservatezza inattaccabile. Luchino era rimasto, attraverso i successi e le critiche, inaccessibile, ben protetto dalle cose e dalle persone che amava con una sorta di aristocratica complicità. Adesso, invece, nei suoi occhi c’è non soltanto la tenerezza, ma anche una autentica curiosità umana.
Enrico mi ha confidato che lei è diventato più buono, più dolce con gli amici, con gli altri.
«Enrico — ammonisce Visconti, — tu parli troppo!» Il tono è quello di un uomo che si diverte con spontaneità a vivere e a veder vivere ed io, che sono qui per sapere soprattutto come vive Visconti oggi, mi sento rinfrancata nell’atmosfera quotidiana. Il cameriere prepara di là la cena, Visconti indossa un comodo maglione color corda con la solita eleganza falsamente trasandata. Ha un plaid scozzese sulle gambe: c’è molta luce nel salone di questo appartamento dove Visconti, giorno dopo giorno, ha reimparato a camminare da solo, ad alzarsi appoggiandosi al bastone, a tagliarsi la carne. La parte lesa del corpo, «la mia nemica», come dice lui, gli è ridiventata complice nell’esercizio quotidiano: «Perché — spiega — ho dovuto reimparare tutto. È stato come quando si rilegge un libro che si era molto amato quando si era ragazzi, sai. Quel libro, poi, lo si dimentica un po’ e, quando lo si riscopre, si ritrovano le parole e dietro le parole le emozioni che ci avevano colpito. Io ho ricominciato a scoprire la gioia di potermi fare la barba da solo, di potermi alzare senza sforzo per prendere un libro e poter scrivere una lettera senza che nessuno mi tenga fermo il foglio. Sento dentro di me una tale felicità all’idea di ricominciare a lavorare! Questo film mi farà sentire come un tempo, pieno di slanci e di energie. Scrivilo, sai, che lo inizio con un entusiasmo totale!».
Questo film — dico guardinga — ha scatenato tante polemiche. Lei lo farà con un produttore che viene indicato come «fascista». Lei, il «conte rosso», si dice abbia scavalcato una barriera troppo grossa. Un conto era lavorare o realizzare un film per la borghesia, un conto accettare sovvenzioni da un uomo che sembra essere da un’altra parte.
«Io volevo fare questo film da sei mesi, ma non avevo trovato un produttore. Non avevo trovato neppure una compagnia assicuratrice disposta a credere nella mia salute, nella mia volontà di salute: non mi interessano i discorsi delle persone che parlano troppo, i discorsi di coloro che hanno sempre e soltanto parlato o criticato troppo. Rusconi mi ha garantito che farà film antifascisti e non farà film anticlericali o pornografici. Ho avuto carta bianca e credo a questa carta bianca»
Aggiunge: «Credo molto a questo lavoro: è una storia autobiografica. La storia di un collezionista anziano, un uomo solo, un esteta vulnerabile ed isolato nel proprio egoismo. Un giorno si trova attorniato da una famiglia composta da una donna ancora giovane, bella e vedova, con due figli. Il titolo esatto sarà: Gruppo di famiglia in un interno. Come la festa del mio compleanno». E cerca di concludere brevemente, desideroso di non dire troppo sul suo film che, piano piano, sta prendendo in lui forma, sequenza dopo sequenza. Ma, come sempre, la gioia creativa del lavoro, così strettamente inscindibile dalla sua vita e dal suo inserimento nella realtà, prende il sopravvento: «Lavorerò a Cinecittà, dove girerò il film interamente, in due teatri diversi, nei quali verranno ricostruiti i due appartamenti del protagonista e della vedova. Che gioia poter ritornare ancora a Cinecittà e mangiare male al ristorante, nell’intervallo delle riprese!».
E il suo progetto di un film tratto dalla vita di Zelda Fitzgerald?
Visconti guarda oltre la finestra: «Ho accantonato questo progetto. Non potrei girare una pellicola così faticosa. Non rinuncerò, invece, a La montagna incantata. Quante volte ho riletto quel libro negli ultimi mesi. Eccolo».
Prende il volume da un tavolino, dove ci sono altri libri: Monte Mario, Caro Michele, Le cento giornate di Sodoma.
Lei legge molto?
«Sì, ho riscoperto appieno il piacere della lettura, forse anche perché non posso ancora andare al cinema come un tempo, sedermi in maniera anonima nel buio di una sala cinematografica. Mi piaceva, un tempo, andare al cinema alle tre del pomeriggio, al primo spettacolo, aspettare, fuori del locale che si aprissero i vetri delle porte.»
Il ritmo delle sue giornate com’è? Che cosa fa al mattino, nel primo pomeriggio? «Senti — e sorride con questa nuova, imprevedibile dolcezza, — perché continui a trattarmi come se fossi convalescente, un uomo da studiare con una speciale ottica deformante? Io al mattino mi alzo presto e faccio la fisioterapia per due ore, poi lavoro sino all’ora di colazione. Mangio moltissimo, ho sempre una fame feroce. Nel primo pomeriggio vado a vedere, quasi sempre, la mia nuova casa di Castel Gandolfo e rimango in campagna sino a che l’aria diventa umida e la luce opaca. Alla sera mangio leggero, poi vengono a trovarmi gli amici. Mi portano sempre regali, dischi. Leggiamo, guardiamo la televisione, ascoltiamo musica. Non gioco a carte, ma spettegolo. Sto meno solo di un tempo. No, non è per paura, ma perché sono curioso. Ho bisogno di sapere cosa fa la gente, cosa succede in tutti i posti dove prima andavo. Amo l’intrigo e poi mi piace sapere chi è a Roma, chi è andato in vacanza.»
Ecco, se lei potesse prendere ora un aereo e andare a fare una bella vacanza, un viaggio, dove vorrebbe andare?
«In Africa — risponde con slancio, — al sole, al caldo. Ho una nostalgia quasi malata dell’Africa e ho bisogno di un contatto continuo, costante con la natura.»
È per questo che ha scelto di andare a vivere vicino a Castel Gandolfo? Non rimetterà proprio più piede nella villa sulla Salaria? Vi sono passata di fronte ieri. C’erano le finestre aperte. Ho pensato ai suoi quadri nel salone, ce n’erano sempre tre o quattro appoggiati per terra perché lei non trovava più posto per appenderli o perché le piaceva cambiarli continuamente.
«Mi piaceva cambiarli — confida, — non deciderne mai la collocazione definitiva. Ho ceduto quella villa ad un industriale milanese. Credo che vi abiti già. Non lo so, non voglio saperlo. La mia casa oggi è questa. Conserverò questo attico anche quando mi trasferirò a Castel Gandolfo. Ho acquistato la villa dall’ex attrice Mariella Lotti, me la sta arredando Cesare Pavani. No, non mi chiedere lo stile. Le mie case non hanno mai avuto un solo stile. Io ho sempre comperato un po’ ovunque le cose che mi piacevano e dato vita agli oggetti scegliendoli. Sarà così anche la mia casa di Castel Gandolfo. Porterò tutti i miei quadri di Giorgio Chini, la sua Toscana pastosa.»
Lo lascio raccontare e lui, un tempo così essenziale e rude negli argomenti che riguardavano la sua vita, indulge nella descrizione di una casa che, si intuisce da tanti piccoli particolari, si sta disegnando intorno in ogni «interno» con la stessa cura che un tempo metteva nello scegliere i cento oggetti di una sua inquadratura.
«È una villa con un grande giardino, una piscina, una foresteria. Si trova proprio sotto la residenza del papa. Dal giardino vedo il lago ed intorno ci sono fiori di tutti i tipi, di tutti i colori. Farò piantare anche le canne di lago e mi trasferirò là a gennaio. Sì, darò una grande festa per inaugurarla.»
Dalla sua conversazione nascono atmosfere sottili e sfumate e, di colpo, sembra di vedere la nuova casa di fronte al lago. Ne parla ancora: «Ho molto bisogno di un contatto con la natura, con i colori della giornata e le sfumature di luce. Prima ero abituato a studiare la luce sul set, adesso voglio viverla giorno per giorno. Ieri a Castel Gandolfo c’era odore di terra bagnata e, da un giardino, si alzavano grandi nuvole di fumo bianco perché qualcuno stava bruciando la legna umida. Ho detto all’autista, a Franco, di fermarsi. Sono rimasto a sentire gli odori, a guardare gli alberi. Ho ricordato i giorni più faticosi di Ludwig. Ogni film è stato uno spicchio di vita. Ho rivisto con tanto piacere in televisione Bellissima.»
Lo dice con gioia quasi infantile, ma il viso si incupisce nel ricordare Anna Magnani: «Sapere che Anna non c’è più mi obbliga a pensare alla morte. Quando Vittorio De Sica è stato male io gli ho mandato un telegramma, subito: ’’Crepi l’invidia di quanti non ti vogliono bene. Auguri”, gli ho scritto. Sai, non c’è niente di più triste che il trovarsi malati e soli.»
Anche se lei cerca di nasconderla, di mascherarla, si avverte la sua paura della solitudine.
«No, non è vero — reagisce. — Per me la solitudine è sempre stata una scelta e mai una mancanza di occasioni. Ma sono stato poco solo: la mia è una famiglia così unita, giovane negli affetti. Il lavoro, anche il più ostile, mi ha creato intorno rapporti caldi. Questa casa è di fronte a quella di mia sorella. In estate sono stato in vacanza a Sperlonga da lei e suo marito, Franco Mannino. C’erano i miei nipoti e tanti giovani. Mi obbligavano a parlare di cinema.»
I giovani dicono che lei spende troppo, che si possono fare bellissimi film con pochi soldi come Cinque pezzi facili o L’ultimo spettacolo senza mandare in bolletta i produttori.
«I giovani dicono tante cose, ma per un Easy Rider ci sono cento, mille brutti film. La presunzione dei giovani mi respinge e mi incuriosisce. Mi piace Bertolucci, mi interessano meno Bellocchio e Samperi. Vuoi sapere quali film ho chiesto di poter vedere in una saletta privata, dopo quasi due anni che non andavo al cinema? Sono cinque: Il fascino discreto della borghesia, Teresa la ladra, Ultimo tango a Parigi, Sussurri e grida, Trash.»
Perché lei lavora ancora?
«Ho sempre qualcosa da dare, da prendere dal lavoro. È il mio modo di essere umile, di credere nella vita, alle cose quotidiane. Mi renderebbe triste la mancanza di fantasia, la noia di troppe giornate senza lavoro.»
Sappiamo così poco di lui, penso mentre cerco di fare altre domande all’uomo mettendo da parte il regista, ma Luchino riporta invariabilmente il discorso al suo film. Ancora una volta il regista e l’uomo si fondono. Sfoglia un libro, chiede che gli accendano la televisione. «Guardo sempre il video — dice, — ho visto tutti i film di Gérard Philipe. Vorrei avere sua figlia nel film che comincerò a gennaio. Non so se Audrey Hepburn accetterà la parte. Tra una settimana Enrico Medioli e Suso Cecchi D’Amico avranno finito la sceneggiatura, che verrà poi tradotta in inglese. Audrey leggerà il copione. Se non accetterà, offrirò il ruolo ad Annie Girardot. Burt Lancaster sarà il misantropo, me stesso, insomma. Lavorare con lui significherà tornare indietro, tornare ai tempi di Il Gattopardo, il mio film al quale sono più legato.»
Nella stanza si è fatta sera, il profumo dei fiori è pesante.
«Ho letto sui giornali francesi — riprende Visconti — che il film Vaghe stelle dell’Orsa ha avuto adesso un grosso successo. Va di moda il liberty, tutti ne parlano e ricercano i vasi, gli specchi. Ho riscoperto per primo il liberty. Ricordo Vaghe stelle dell’Orsa come se fosse ieri: sequenza per sequenza. Soprattutto quando trovammo la cisterna romana. C’era là dentro una luce d’acquario. Perché, vedi, ti posso raccontare se vuoi i libri che leggo, dire quali quadri porterò a Castel Gandolfo, ma non posso spiegarti la nostalgia profonda, che mi assale come angoscia, della luce dei set. Di quella, ad esempio, che ricreammo per il pontile d’attracco di Ludwig. Adesso, quando leggo, cerco sulle pagine la luce delle possibili sequenze.» Chiede che gli chiudano le tende sulla sera buia. La cena è pronta, tra poco arriverà sua sorella.
«Oggi non sono andato a Castel Gandolfo — dice Visconti piano — e mi dispiace. Il pomeriggio è passato, è già sera. Le giornate si sono accorciate così bruscamente, me ne accorgo anche quando trascorro un intero pomeriggio a leggere, a lavorare, e sento Roma là fuori appannarsi. Sai, quand’ero malato a letto, in Svizzera, e anche dopo, durante la convalescenza, avevo nostalgia dei colori. Ecco perché adesso passo tanto tempo a guardare i colori dei fiori, della campagna.»
Giovanna Grassi