Parigi 15 gennaio 1965

«È noioso, buffo, inevitabile» ha detto Annie Girardot per definire quella sorta di “fiera delle vanità” — soprannominata conferenza stampa — che si verifica attorno alle celebrazioni del teatro e del cinema. Questa è la volta di Luchino Visconti, che Marie Bell, la direttrice del Gymnase ha “dato in pasto” ai giornalisti, per lanciare la prima di Dopo la caduta di Miller che andrà in scena a Parigi il 21 gennaio. Anche Arthur Miller era presente fedele alla immagine mille volte vista sui giornali: allampanato, scavato, ieratico come un santo bizantino, non loquace, e apertamente irritato contro tutti coloro che gli chiedevano riferimenti biografici a proposito del dramma.

Con Miller era la terza moglie, vestita di rosso-fiamma, magrissima, disinvolta, allegra. Si è parlato tuttavia, quasi sempre di Marilyn per la indiscrezione degli intervistatori che continuavano a chiedere a Miller e a Visconti quanta parte della tragica vicenda personale dell’attrice fosse stata riversata in Dopo la caduta. Visconti ha dato una risposta sferzante: «Io non chiedo di sapere chi è esistito dietro Madame Bovary o dietro Signora dalle camelie. Quello che conta, in un’opera, è il personaggio, con la sua complessità e i suoi caratteri definiti, la sua potenza drammatica. Che cosa importano i dati anagrafici o biografici? Nel drammaio ho quasi sempre puntato su loro due, i protagonisti, su questa storia di amore drammatica e lacerante, come sono quasi tutte le storie d’amore, da Giulietta e Romeo in poi… Ho soppresso molti personaggi, che non ritenevo essenziali, per far convergere tutto sui due protagonisti, su questo amore che alterna lo strazio dell’uno a quello dell’altra, dove non c’è un torturatore e una torturata, ma dove la chiave dei personaggi è data da una disperata vicenda d’amore».

Ma questa storia d’amore déchirante è stata inserita da Visconti in un contesto storico, in un periodo del nostro tempo — la guerra hitleriana, la barbarie del nazismo, i campi di concentramento — che il regista ha posto, con convinzione assoluta e con grande forza scenica, alla radice del dramma.

«Ho scelto — dice Visconti — un tipo di scena fissa, come in un mistero medioevale: sul fondo di essa, si erge la torre di Auschwitz con la scritta Il lavoro rende l’uomo libero e la sua sagoma sovrasta la scena per tutta la commedia, come un presenza sinistra, che riconduce alla tragedia degli individui oltre la vicenda personale, alla coscienza della responsabilità collettiva».

Facciamo notare a Visconti come la differenza fra la sua regia e quella di Zeffirelli, che ha firmato l’edizione italiana del dramma, appaia rilevante. «Io non ci ho capito niente — ha detto Visconti — nello spettacolo dato a Roma. La storia è appiattita, schiacciata. Monica Vitti ha giocato tutto sulla nevrosi. Ne viene fuori un dramma da psicanalisi. Miller segue invece qui lo stesso filone ideologico dei suoi drammi precedenti, l’urto dell’individuo con la società, lo choc profondo che ne deriva: la incapacità di trovare una comunicazione vera con i propri simili, tanto in America che altrove, tanto oggi che ieri, condizionati tutti da una stessa storia, la cui eredità pesa ancora minacciosa».

Visconti parte dal senso della colpevolezza collettiva per trovare il filo delle tragedie di cui gli uomini sono protagonisti o vittime. «Il simbolo di Auschwitz è per me essenziale — dice Visconti —: esso è invece scomparso nella tragedia di Zeffirelli, e al suo posto c’è una buffa stazione di metrò. Io ho registrato, nel testo, le battute, soppresse, sugli ebrei, sul nazismo, su Hitler. La scenografia e la memoria del personaggio, ognuno sta su un gradino, su una scala monumentale, ora vicino ora lontano, ora illuminato ora cancellato dall’ombra, a seconda delle fasi della vicenda. Dietro la scalinata si leva la torre di Auschwitz, poi appaiono i grattacieli di New York illuminati. Non c’è soluzione di tempo: il dramma si svolge fuori dal tempo ma, insieme, è strettamente condizionato dall’arco di tempo storico che tutti abbiamo vissuto, dalla guerra nazista con i suoi orrori, alle moderne civiltà industriali e neocapitalistiche con i loro orrori».

Visconti si è dunque cimentato nell’impresa per lui entusiasmante, di saldare un dramma privato con una tragedia collettiva, e mentre sembrava che il testo di Miller nelle versioni fino ad ora conosciute, accusasse genericamente tutti e nessuno, Visconti, con la sua regia, ha cercato invece di andare fino in fondo ad esso, e di additare, senza incertezze, i responsabili, i colpevoli.

Maria A. Macciocchi