In Dopo la caduta si salvano solo gli attori – Oggetto di violente e sbrigative critiche anche la regia

Parigi, 22 gennaio 1965

I critici parigini hanno intinto la penna nel vetriolo per recensire il dramma di Arthur Miller Dopo la caduta rappresentato ieri sera al teatro Gymnase. Quello che sorprende nell’atteggiamento della critica francese, è la sproporzione fra la entusiastica accoglienza fatta qualche mese fa a Billetdoux per una commedia polverosa, piena di falsi problemi, francamente ridicola, come Bisogna passare attraverso le nuvole — una specie di Senza famiglia di Malot alla rovescia — e il nevrotico assalto contro il dramma di Miller. Fra le due commedie, noi voteremmo per Dopo la caduta. Gli unici ad essere salvati, dalla stampa francese, sono gli attori, i «nostri grandi interpreti Michel Auclair, Annie Girardot, Clotilde Joano, Marcello Ramson, ecc.» Gli eccelsi commedianti francesi hanno insomma avuto il torto di accettar di recitare il dramma di un «commediografo dal grande cappello e dal cranio piccolo» e di farsi dirigere da un «vecchio coccodrillo che ha strizzato l’occhio e inghiottito tutto Miller» nel quadro di una «messa in scena pesante, volgare, insistente, con i Visconti-boys che scendono le scale del Casino de Paris e la danza del ventre a volontà imposta ad Annie Girardot».

Il discorso critico non va oltre la invettiva senza pudore, e talora il gergo dei facchini delle halles appare di tono più delicato di quello dei giornalisti. Ma la critica francese è In genere manichea, prendere o lasciare, buono o cattivo. L’arbitrio appare totale. «Miller è il doganiere Rousseau del teatro, che andava bene quando faceva drammi naturalisti e si occupava del bue dell’Arizona con tranches-de-vie arrostite al punto giusto… Dopo la caduta è la storia di un personaggio di Dostoievski che sarebbe emigrato negli Stati Uniti… invece di allungarsi sul divano dello psicanalista, egli parla al pubblico. Siamo, insomma, dal dottore…» (Paris Presse).

«L’autore, durante tre ore, ha accumulato tutti i luoghi comuni, tutte le facilonerie, tutte le balordaggini del pensiero americano a buon mercato… Ho cercato invano una idea originale, una visione un po’ seria. Non ho trovato che una paccottiglia di banalità scritte sul mondo che geme… proclamate in tono magniloquente da un vanesio che porta a bandoliera la sua bella anima torturata di problemi» (France Soir).

«O’Neill e Strindberg seppero fare un’opera universale del loro calvario personale, mentre Miller sembra tradire dei segreti di alcova come un gazzettiere di quart’ordine, senza nemmeno rinnovare la tecnica scenica dell’esame di coscienza…» (Le Monde).

«Miller fa qui danzare troppo il cadavere… È uno spogliarello-danza di morte. Le anime sensibili non sanno che pensare. Tutto era buono in Marilyn, anche la sua agonia» (Paris
Presse).

Sbranato Miller, la critica si è rivolta contro Visconti, anche se con minore irrazionale volume. «La sua regia cerca vanamente di dare al testo una dimensione che esso non ha. Lo disincarna e, al tempo stesso, lo riduce a niente» (Paris Presse)

«Quanto alla messa in scena di Luchino Visconti, essa sarebbe parsa senza dubbio audace nel 1912» (France Soir)

E Le Monde: «L’errore è nella commedia stessa… ma la responsabilità di Visconti sembra pesante da! principio alla fine… Dove è il tatto splendido di un Fellini che confessa il peggio in
Otto e mezzo?».

La pretensione dei critici ha volutamente ignorato il grande pregio della regia di Visconti rispetto a quella di Zeffirelli e dello stesso Kazan in America. La capacità di Visconti di restituire o di dare alla commedia una dimensione e un respiro che essa non aveva nelle rappresentazioni italiana e americana, la forza che egli ha impiegato nell’inserire la vicenda di amore dei protagonisti in un dramma storico e universale, quello che ha la sua origine nel nazismo e nella colpevolezza collettiva (da cui gli uomini sono ancora oggi segnati nelle loro personali tragedie) non sono state comprese o non hanno avuto alcun interesse per i critici.

Mentre sul dramma di Miller nulla abbiamo, da parte nostra, da aggiungere a quanto il critico dell’Unità Aggeo Savioli scriveva qualche mese fa su questo giornale, quello che possiamo vivamente lamentare a Parigi è che l’impegno eccezionale della regia di Visconti non abbia qui avuto alcuna eco. Segno ulteriore di una cristallizzazione culturale che appare in Francia sempre più grave.

Maria A. Macciocchi