Roma, gennaio 1958

La sala del Teatro Eliseo era vuota, e in ombra. Illuminato soltanto il palcoscenico, dove Luchino Visconti e i suoi attori erano impegnati da molte ore, senza risparmio, nelle ultime prove di Uno sguardo dal ponte. Approfittammo di una pausa, durante la quale il regista era sceso a fumare una sigaretta con noi, nella seconda fila di platea, per indicargli, poco più in là, la poltrona contrassegnata col numero 17. «Hai un’idea — gli domandammo — di chi l’occuperà la sera della prima?». Poiché Visconti non comprendeva, e poiché gli attori già si allarmavano all’inopportuna evocazione del numero maledetto, aggiungemmo che c’era un mezzo infallibile — e già collaudato nell’ottobre del ’56 a Londra, alla prima mondiale di A view from the Bridge — per neutralizzare ogni influsso calamitoso di quella poltrona: farvi sedere sopra la moglie dell’autore. Per chi non lo sapesse quest’autore si chiama Arthur Miller, e la sua signora risponde al nome di Marilyn Monroe.

Visconti scrollò le spalle, divertito, e indicò il nostro fotoreporter cui aveva concesso di rompere la rigorosa consegna delle prove, alle quali di solito egli non ammette nessuno; disse che uno di questi guastatori alla vigilia era già di troppo, figurarsi cento di essi scatenati in platea al momento di andare in scena. Paolo Stoppa sorrise, uscì un un suono inarticolato che però non apparteneva a lui, apparteneva al personaggio che aveva ancora indosso, lo scaricatore siculo-americano Eddie Carbone, il ruvido protagonista della commedia. Ilaria Occhini, misteriosamente, arrossì un po’. Ma Rina Morelli, ch’è una falsa mite, e lo si vede dal temperamento che sfodera in scena, insorse. Lo sdegno aristocratico della grande attrice di prosa, avvilita da questi tempi di confusa democrazia delle arti e degli artisti, le rifluì nel sangue, e il sangue le risalì alle gote. «Il teatro — protestò — è ancora uno dei pochissimi luoghi nei quali lo spettacolo si svolge sul palcoscenico e non in platea. Volete lasciarci almeno quest’angolino?».

Quella sera d’ottobre, al Comedy Theatre di Londra, che è la sala di un circolo teatrale privato, la presenza di Marilyn era stata la più clamorosa e spiritosa risposta al Lord Ciambellano, il quale aveva proibito la rappresentazione da una ribalta regolare perché aveva scambiato il tema stesso della commedia, che è in effetti di ordine sociale, con quello dell’omosessualità, che rientra invece nel testo solo come un ingrediente e come il risolvente di un nodo drammatico. Stretta in un abito di raso rosso ch’era piuttosto una guaina fiammeggiante, febbricitante ma sorridente, sorridente ma emozionatissima, la neo-signora Miller, che occupava appunto il n. 17 di seconda fila, seguì l’intera recita con la piccola mano nascosta tra le mani lunghe e ossute del marito, che sedeva a fianco, al n. 18, mentre alla sua destra, ai numeri 16 e 15, avevano preso posto i coniugi Laurence Olivier e Vivien Leigh. Alla fine, quando gli applausi scrosciarono sull’ultimo calar di sipario, commise una piccola deliziosa gaffe: fece l’atto di alzarsi a ringraziare, proprio come se il dramma l’avesse scritto lei.

Ma bisognava capirla. A parte qualche battuta che soltanto Marilyn aveva potuto ispirare al marito scrittore («Tu dimeni troppo le anche! E non mi piace come tutti ti guardano… Quando passi tu, le teste si voltano come mulini a vento…»), un po’ la commedia apparteneva anche a lei. Non che Miller sia il tipo di artista da lasciarsi influenzare da chi gli è vicino. Arthur Miller, non dimentichiamolo, è stato colui che al solito referendum che gli chiedeva «con chi vorreste naufragare in un’isola deserta?», ha risposto con tutta sincerità: «con una penna stilografica».

La tragedia dello scaricatore

Ma, se è vero quel che non ha mai smentito, dall’alto del ponte — il ponte di Brooklyn — egli non avrebbe visto tutto quel che ha visto se ad accompagnarlo per quei paraggi non fosse stata Marilyn, allora fidanzata con lui. Facevano insieme lunghe soste negli slums newyorkesi, si aggiravano per il porto, si lasciavano sorprendere dalle ore piccole negli squallidi caffè, sedevano alle tavole dei portuali, ne apprendevano e ne annotavano storie e umori, modi di vivere e di sentire; ed era appunto la presenza di una Marilyn, debitamente truccata per non farsi riconoscere ma che dimostrava di non aver mai dimenticato di essere uscita proprio da uno di quegli slums, a stabilire il contatto umano, a favorire quei rapporti di immediata confidente simpatia che un uomo freddo e laconico come Miller difficilmente avrebbe ottenuto in quell’ambiente.

Il ’’ponte’’, abbiamo detto, è quello di Brooklyn. Luchino Visconti non ha rinunciato a portarlo materialmente in scena, facendolo apparire verso la fine in uno scorcio imponente. La scena da lui creata (1) è fissa e multipla, le luci puntualizzano via via i luoghi dell’azione: un interno della casa “familiare e pulita” di Eddie Carbone, la strada che corre lungo la sua facciata, un tavolino, uno sgabello e un attaccapanni che sintetizzano lo studio dell’avvocato Alfieri. L’avvocato Alfieri, sui cinquanta-sessanta, dignitoso, arguto, riflessivo, è un personaggio-coro. Ha il compito di introdurre raccordare e commentare l’azione. Spetta a lui aprire e chiudere il sipario sul dramma. Lo apre e lo chiude parlando di siciliani trasmigrati ieri e oggi sotto il ponte di Brooklyn. Diffidenti verso la legge codificata, come lo furono sempre in Sicilia, dai tempi dei greci e dei cartaginesi, egli dice cominciando. Ma oggi, anche sotto il ponte, tutti sono rientrati più o meno nell’ordine, ’”tutti americanizzati, tutti civili”, e i duelli sono accantonati. «Eppure ogni tanti anni qualche caso c’è ancora, e allora una ventata verde di mare smuove l’acqua stagnante…». Questo dice l’avv. Alfieri, appena alzato il sipario. E quando questo sta per calare definitivamente, e già il nuovo caso si è riproposto per intero dinanzi ai nostri occhi e il sangue è corso in scena, ripete che, certo, “accordarsi è necessario”, ma non riesce a nascondere la sua inquieta predilezione per un siciliano come Eddie Carbone, che pure era nato in America, e che alla fine s’è affidato al coltello, restando a terra per sempre. Tutto il dramma di Miller, del resto, è un dramma siculo-americano, una specie di Cavalleria rusticana ambientata sotto il ponte di Brooklyn. Eddie Carbone appartiene alla seconda generazione, quella nata nell’Unione ma da genitori appena immigrati. Lavora come un cane. Così da sempre, ma soprattutto da quando sua cognata è morta e lui insieme a sua moglie Beatrice (Rina Morelli) ne ha adottato la figlia Catherine (Ilaria Occhini). «Eddie — spiega l’avvocato — viveva così, e non avrebbe mai sospettato di avere un destino». Il destino gli entra in casa quando accoglie come fratelli due giovani ’’sottomarini’’. Si chiamano così, sul “fronte del porto”, gli immigrati clandestini. Da ogni nave ne sbarca uno, e l’Ufficio Immigrazione per dar loro la caccia ha popolato la zona di agenti e di informatori. Questa in America è storia di tutti i giorni: i portuali un po’ si indignano per la concorrenza, poi lasciano fare, ma in ogni caso mettono al bando chi li denuncia. Marco e Rodolfo, i due sottomarini che Eddie accoglie, sono parenti di sua moglie. I parenti della moglie è scritto siano la sua rovina. Anche la nipote Catherine, come abbiamo visto, è parente di sua moglie. Eddie la adora, anche troppo, e la fanciulla sta compiendo diciotto anni, vuol vivere. È una passione innaturale, della quale egli non si rende conto. Solo sua moglie avverte la ragione profonda per la quale egli nutre un’immediata avversione per il più giovane dei due ospiti, Rodolfo. A differenza del fratello Marco (Sergio Fantoni), che è un uomo quadrato, che ha lasciato al paese moglie e figli e il cui sogno è solo quello di lavorare sodo per farsi il gruzzolo e tornarsene indietro, Rodolfo (Corrado Pani) in America vuol metterci radici. È un tipo singolare. È elegantino, smorfioso, sa fare un sacco di cose: canta, cuce, cucina. Diverte tutti. Al porto diventa subito una macchietta. Lo chiamano ‘’bambola di carta’’, dal titolo di una canzone. Oppure ’’biondino’’, dal colore dei suoi capelli. Eddie sospetta che quel colore di capelli sia posticcio. Sospetta anche dell’altro. Quel suo muoversi effeminato, e tutto il resto. «Vi dico — dice all’avvocato — che non è regolare». Lo dirà anche a Catherine, quando si sarà accorto che i due filano e vogliono sposarsi. «È un trucco vecchio quanto l’America — le ha gridato una volta — sposarsi con una nata qui per prendere la cittadinanza. È solo questo che vuole». Ma la ragazza non ci ha creduto. Allora, Eddie vuol dimostrare anche a lei che il giovanotto non è regolare: nel corso di un alterco, lo bacia sulla bocca. Non serve neanche questo. Così Eddie arriva a far ciò di cui non si sarebbe mai creduto capace: denuncia i due clandestini all’Ufficio Immigrazione. Rodolfo si salverà, proprio anticipando il matrimonio con Catherine. Chi ci rimette è Marco. Mentre lo trascinano via accusa il delatore dinanzi a tutto il quartiere. E sarà con lui che Eddie, perché si rimangi quello che ha detto, si batterà, coltello alla mano. Finirà nel sangue, senza aver capito gran che della sua tragedia. Ma l’avrà vissuta fino in fondo. «Nella sua memoria — questa è l’ultima battuta dell’avv. Alfieri — c’è qualcosa di perversamente puro che mi attrae, non di puro in quanto buono, ma in quanto pienamente se stesso».

Uno sguardo dal ponte

In Uno sguardo dal ponte ritroviamo intera la tematica cara a Miller, la sua polemica individualistica, la sua difesa a oltranza della personalità umana, le sue riserve su una società gremita di leggi restrittive, di informatori e di poliziotti. «Il mio è un dramma sociale», ha spiegato Miller, e possiamo credergli. «Con al centro la passione incestuosa di un uomo in preda a un conflitto nevrotico», ha aggiunto: e possiamo continuare a credergli, non soltanto sulla parola. In questo dramma infatti, ancor più scopertamente che negli altri, egli ha condensato i suoi motivi ideologici nell’ambito di caratteri e conflitti umani, esasperati dalla sua abilissima mano teatrale sino ai limiti del melodramma: mentre proprio la sua serietà e la sua carica di natura intellettuale gli hanno permesso di non precipitarvi in pieno.

Una notte in teatro

Sono tutte qualità, queste, congeniali a Luchino Visconti, e specialmente al Visconti di oggi. È probabile che fino a ieri questi, in un testo come Uno sguardo dal ponte, sarebbe stato principalmente attratto da quel tanto di violento che esso contiene e da quel tanto di scabroso che ha l’audacia di portare alla ribalta: il rapporto inconfessabile tra lo zio e la nipote, quel sospetto di anormalità intorno ai capelli biondi del ragazzo, culminante nella scena del bacio, che tanto fastidio ha dato alla censura inglese. E sarebbe stata, è chiaro, una scelta in gran parte viziata dall’esterno: una svista paradossalmente simile a quella presa dal Lord Ciambellano. Ma ieri, anzi l’altro ieri, Visconti faceva urto contro una scena ristagnante come quella italiana, e nello stesso tempo, quasi in un processo di autoliberazione, sfogava certe acerbità di una personalità prepotente ma ancora piena di scorie, per quanto geniali. Oggi è diverso. A quel primo ciclo della sua attività, di cui egli stesso fissa il termine a Troilo e Cressida, dato a Boboli nel ’50, ne sono successi almeno altri due. C’è stata la scoperta di Cecov — “un vero e proprio innamoramento”, dice Visconti — che ha segnato il periodo più illuminante della sua maturazione, gli ha insegnato l’approfondimento sui testi, e insieme l’allargamento delle dimensioni teatrali e poetiche della messa in scena. C’è stata poi la riscoperta di Goldoni, l’ambizioso e secondo noi riuscito tentativo di restituire all’avvocato veneziano la misura storica e realistica che gli conveniva, come ne La locandiera, e anche il suo puro arioso timbro musicale, come nel recentissimo L’impresario delle Smirne.

Naturalmente l’aneddotica vera e falsa addensatasi a suo tempo sul “fenomeno Luchino” è tanta, che qualcosa ne rimane attaccato suo malgrado anche sulle spalle di quel che è oggi, finalmente, soltanto il “regista Visconti”: per cui le sue “prime”, anche quando pienamente di successo come quella di sabato 18 con il Ponte, conservano per il pubblico un richiamo anche mondano e magari snobistico, comunque eccezionale, che ci ricorda — ma alla lontana — le clamorose serate del dopoguerra e delle stagioni immediatamente successive. È per questo che oggi un reportage su uno spettacolo di Visconti, se vuole essere più informato che fantasioso, si ricava meglio alle repliche o addirittura, come abbiamo preferito noi per il Ponte, alle prove.

Anche alle prove, infatti, Luchino è diverso da ieri. Il cronista in cerca di aneddotica straordinaria rischia di rimettersi in tasca il taccuino senza avervi potuto vergare nemmeno una riga. E l’episodio di Luchino che rimane un’intera notte in teatro, costringendo gli attori a fare altrettanto, nell’attesa d’un autentico fischietto da capostazione per dare il via al treno dell’Euridice di Anouilh, e tante altre famose sue impuntature del genere, parranno al cronista golosità di altri tempi.

Franco Rispoli

(1) Scena su bozzetto di Mario Garbuglia.