Febbraio 1954
Siamo grati a Luchino Visconti che, trasportando sullo schermo le vicende della novella Senso, ha rivelato agli immemori un aspetto pressoché ignorato della personalità artistica del grande architetto Camillo Boito. Ci ha ricordato in lui lo scrittore che, poco o tanto, fece parte col Rovani, col Tarchetti, col Dossi e con altri, di quel movimento letterario che fu la cosiddetta «scapigliatura» milanese. È ben vero che Camillo Boito, tutto preso dai problemi dell’architettura, ostentava di non dare — e non dava infatti — importanza agli scritti che gli uscivan dalla penna, ma spetta a noi posteri di scoprire, sotto quella apparente trascuratezza, un vigore, uno spirito e talora, come nella novella Senso, una potenza narrativa tali da fare invidia a più di un letterato di professione.
Lo scrittore Boito è come Boito uomo: sincero, talora aspro nelle polemiche, ma sempre signorile, il che si spiega anche con la sua nascita: egli e il fratello Arrigo infatti erano figli di un miniaturista bellunese, e da lui ereditarono certo quella specie di rustichezza montanina che era anche nel loro aspetto fisico; la madre era invece una nobildonna polacca, la contessa Radolinski, e da lei assorbirono quei sentimenti di finezza che, se non parevano evidenti nell’aspetto esteriore dei due fratelli, pur si rivelavano nelle loro azioni.
Benché nato a Roma (era il 30 ottobre dell’anno 1836) ebbe la sua prima educazione artistica e intellettuale a Venezia, dove si trasferì all’età di sei anni con la famiglia. La sua carriera di architetto e di insegnante si svolse, si può dire, sotto il segno della buona sorte, in quanto la sua genialità e le sue idee rinnovatrici trovarono riconoscimento ufficiale quand’egli era poco più che un giovinetto. Alunno dell’Accademia di Belle Arti a Venezia, litigò per diversità di vedute col suo maestro, il Lazzari; simpatizzò invece col successore del Lazzari, che fu il marchese Selvatico e questi, uomo di spirito libero, alieno dal fossilizzarsi sui vecchi canoni, tanto ammirò il giovine Boito che gli cedette la cattedra: ed ecco Camillo Boito professore a 19 anni! Destò larga eco la sua prelezione, tenuta il 15 gennaio 1856: egli esponeva il suo programma che era un atto di ribellione al bigottismo classicista e al vecchio insegnamento. Dopo un anno ecco il giovane Boito che, munito di una pensione provvisionale, fa un viaggio di studi in Italia. Nel ’59 rischia l’arresto a Venezia e se ne va a Milano liberata ove si ricongiunge col fratello Arrigo che si era appena iscritto al Conservatorio. Entra all’Accademia di Brera e nel 1860 succede allo Schmidt nella cattedra di architettura superiore; non ha che 24 anni ed ha l’onore di avere a collega il pittore Francesco Hayez!
Da allora egli tenne l’insegnamento a Brera per 48 anni: ma in quegli anni quante cose fece, fuor dell’àmbito dell’insegnamento, come architetto, come scrittore di cose d’arte, come viaggiatore in vari Stati d’Europa, come novelliere, come presidente della stessa Accademia di Brera e di innumerevoli comitati e come oratore sempre tonante contro l’incomprensione dei burocrati e contro gli iconoclasti delle vere opere d’arte, benché egli stesso fosse in un certo senso un iconoclasta in quanto nemico di ogni «fissità» e di ogni idolatria nel campo delle forme architettoniche.
In quanto professore ufficiale per decenni e nello stesso tempo combattente di tutte le battaglie artistiche, nonché per quella sua natura battagliera e disprezzante dei facili guadagni ove questi dovessero compromettere la sua dignità di artista, egli mi sembra ben paragonabile al suo contemporaneo e quasi coetaneo Giosuè Carducci. Morì a Milano il 28 giugno del 1914.
Soprattutto nella capitale lombarda e nel Veneto lasciò segni incancellabili della sua genialità di architetto. Di lui (per dire solo di Milano) è quello splendido edificio caro a tutti gli italiani che è la Casa di Riposo dei Musicisti in cui i vecchi artisti non arrisi dalla fortuna finanziaria vivono una vecchiaia dignitosa e serena, accanto alla tomba di papà Verdi; sua è la sistemazione, nelle sue linee generali, della Piazza del Duomo; a lui possiamo essere grati se i monumentali Archi di Porta Nuova in Via Manzoni non furono demoliti; né vorremo dimenticare (tanto per rimanere nell’àmbito geografico della Lombardia) che tuttora splende di una sua raccolta e malinconica bellezza il mausoleo della famiglia Ponti nel cimitero di Gallarate. E ancora di lui come architetto insigne possiamo ricordare, per quanto riguarda il Veneto, il Palazzo delle Debite, tutto ridente di porticati, a Padova: e manco male che quel palazzo ride, ma piangevano i debitori morosi che un tempo occupavano il carcere sulla cui area sorse appunto il palazzo boitiano che nel nome ricorda la triste fabbrica precedente e la sua speciale destinazione; poi il Museo Civico pure a Padova, e ancora il superbo scalone di Palazzo Franchetti a Venezia.
In generale per l’uomo della strada l’architettura è la cenerentola delle arti. Si va abbastanza frequentemente a sentire l’opera in musica, si entra a visitare una mostra di pittura o di scultura, si entra da un libraio a comprare un romanzo moderno o un’opera classica, ma è raro che ci si soffermi ad ammirare un edificio artistico innalzando un pensiero di gratitudine a chi lo ideò. Pure l’aspetto degli edifici ha un grande ascendente sulla psiche del viandante anche se questi non se ne accorga: non sarebbe possibile, ad esempio, pensare di far male a qualcuno traversando il cortile di uno di quei chiostri di convento francescano o benedettino in cui sembra che le volute del soffitto vogliano avvolgere l’anima di chi passa per portarla in alto, e dove pare che le colonne sian lì a rappresentare il numero delle azioni buone e di quelle cattive della nostra vita, sì che dalla eccedenza delle une sulle altre dipenda il giudizio divino sul nostro modo di essere nella vita eterna. E, per contrario, nessuna coppia di innamorati potrebbe abbandonarsi ad espansioni sentimentali, od anche a scherzi e a risa, radendo le gelide tremendissime mura di quell’edificio carceresco-cimiteriale che è il Palazzo di Giustizia di Milano. Nel primo caso, per volere il male di qualcuno, bisognerebbe proprio che il passante fosse un inveterato delinquente: nel secondo che quegli innamorati fossero misera gente priva del più elementare senso estetico e incapaci di avvertre quel fluido, quella corrente, quel «quid» che i luoghi esercitano sulle persone che vi si trovano.
Ma (pardon!) qui si voleva dire di Camillo Boito scrittore. Di lui come tale abbiamo le Storielle vane, L’anima di un pittore, le Gite di un artista, senza contare gli articoli sui giornali Lo Spettatore e il Crepuscolo, nonché le relazioni su questioni di edilizia e d’arte.
Come s’è detto, egli ha un modo di scrivere vivace, pronto, che fa sùbito presa sull’interesse del lettore. In nessun testo di storia di Venezia abbiamo letto una esposizione delle vicende dell’isola di S. Elena (all’estrema punta di Venezia verso il Lido) come sa darcela il Boito nelle sue Gite di un artista: e in nessun libro di impressioni di viaggio abbiamo gustato una descrizione delle feste popolari in Santa Marta di Venezia così come ce la fa il nostro autore nello stesso libro.
Altrettanto vive le novelle, tra le quali quella che ben a ragione attrasse l’attenzione di Luchino Visconti, quella intitolata Senso.
Lo sfondo stesso dei fatti narrati è costituito dalla nostra guerra del 1866, quella che vide gli italiani alleati coi prussiani contro gli Austriaci, la guerra che liberò il Veneto. Il racconto è, nella finzione, lo squarcio autobiografico di una tal contessa Livia, trentina: secondo la moda ottocentesca essa ha voluto scrivere un diario, convinta che «il confidare alla carta i vecchi ricordi deve servire a mitigarne l’acerbità e la tenacia». Sposata giovanissima ad un vecchio conte destinato a non mai conoscere i tumulti amorosi di sua moglie, dopo aver troppo scherzato col fuoco incappa in una sciagurata passione, violentissima, per un ufficiale dell’esercito austriaco, Remigio Ruiz, italiano però di nascita: un tipo fisicamente splendido, erculeo, ma moralmente corrottissimo, mentitore, sfruttatore, vile. Per una di quelle stranezze di cui son capaci le donne essa adora questo Adone in divisa militare, per quanto egli sia così spregevole, e si lascia estorcere denaro a non finire, ma a lei basta una parolina amorosa per cedere sempre ad ogni pretesa. Trascorre con lui settimane di felicità tra gli incanti di Venezia. Intanto scoppia la guerra che separa i due amanti: lui a Verona, lei a Trento. Un giorno egli fa una rapida comparsa a Trento e chiede alla donna una somma di danaro ancor più forte del solito: se essa non l’ha, dia i suoi gioielli affinché egli ne realizzi il valore. Ma a che cosa dovrà servire tanto danaro? Ecco, la guerra è scoppiata ed egli dovrà partire per il fronte. Volendo e potendo, egli corromperà con una forte somma i medici militari e potrà starsene tranquillo a Verona, fingendo di avere una malattia a una gamba che lo costringerà a zoppicare un po’, così per darla a bere. Il progetto è esposto da lui all’amante con un ributtante cinismo. «Senti dunque. Con duemilacinquecento fiorini i due medici dell’ospedale e i due della brigata mi fanno un certificato di malattia, e vengono a visitarmi ogni tanto per confermare presso il Comando una mia infermità qualunque, la quale mi renda inabile affatto al servizio. Non perdo il mio grado, non perdo il mio soldo, scanso ogni pericolo e rimango a casa tranquillo, zoppicando un poco, è vero, per una sciatica maligna o per una lesione all’osso della gamba, ma quieto e beato».
Accontentato, il bel Remigio riparte per Verona: di là manda lettere di amore a Livia, ma intanto col denaro di lei se la spassa indegnamente con le bagasce della città, alle quali racconta persino, sghignazzando, che la contessa Livia è innamorata di lui e gli passa denaro.
Stanca di non vedere l’amato, Livia, un giorno, smarrito ogni pudore, ogni prudenza e ogni senso di orgoglio, corre da Trento a Verona. facendo quasi morire di fatica i cavalli della carrozza. Trova la casa di Remigio, sale le scale, riesce a metter piede sulla soglia dell’uscio socchiuso del quartierino di lui; da lì dietro partono voci miste e si distingue anche quella di lui. Nella semioscurità essa, non vista, vede l’amante che abbraccia una ragazza discinta. Livia ascolta i loro dialoghi, sente che i due parlano anche di lei deridendo la sua passione. I due, presi dai fumi della lussuria, non hanno nemmeno visto Livia, e la delusa si ritira a passi di lupo. Ormai nell’animo di lei l’amore ha ceduto il posto all’odio. Essa va al Quartier Generale austriaco e denuncia l’indegno trucco dell’ufficiale Remigio Ruiz per sottrarsi alla guerra combattuta; lo stesso generale al quale essa ha parlato invita la contessa a riflettere sulle conseguenze di una tale denuncia. Ma Livia è decisa. L’ufficiale sarà fucilato. «Signora, ci pensi: la delazione è un’infamia e l’opera sua è un assassinio». Risposta della contessa: «Signor generale — esclama, alzando il viso e guardandolo altera — compia il suo dovere». La donna riesce ad assistere, inosservata, alla esecuzione, vede l’amante cadere, ne gode. E poco le importa che lì, sul posto, un ufficiale austriaco al corrente del caso, riconosciuta la delatrice, le sputi in faccia.
In questo racconto l’arte di Camillo Boito rifulge per la efficacia delle espressioni, per la continuità dell’interesse che la narrazione suscita nel lettore, per il fascino acre, da verismo zoliano, di certe situazioni. La passione della donna è descritta con una potenza icastica.
La precipitosa scarrozzata da Trento a Verona, durante la quale sembra che i battiti del cuore di lei abbiano il potere di accelerare i giri delle ruote, ci richiama la corsa affannosa di Carlotta verso la casa di Werther, così come la immaginò il Massenet nel suo melodramma che appunto si intitola allo sventurato personaggio goethiano. E, a sfondo di questa vicenda passionale, i giorni fatidici, misti per noi di fatti gloriosi e ingloriosi, della terza guerra della nostra indipendenza: le città venete, ancor tenute dagli austriaci che stanno per cedere all’impeto degli italiani; il disagio suscitato nel testimone di quelle giornate dallo spettacolo di una guarnigione militare che sta per abbandonare la città al nemico: tutta un’orgia di disfacimento e di volgarità. «Sempre carri e soldati, ronde di gendarmi, polvere e armamenti un frastuono assordante e uno stridore acuto di ferramenta, a momenti un mormorio confuso e pauroso, nel quale si distinguevano gemiti e imprecazioni e le strofe di qualche canzonaccia oscena, cantata da voci strozzate».
Attendiamo di assaggiare i frutti della grande fatica di Luchino Visconti: il soggetto è tale da offrire le più grandi lusinghe di una fama duratura a chi lo tratti con coscienza di vero artista.
Antonino Cataldo