Teatro Nuovo, Milano, marzo 1946

È con vera emozione che ci si appresta al nostro compito di critici: dobbiamo questa volta annunziare non solo il successo più inatteso e più folgorante della stagione, ma una battaglia e una vittoria che si inscrivono, ne siamo certi, fra le date maggiori del nostro teatro contemporaneo, e la rivelazione di una opera rivoluzionaria e assieme costruttiva, che ci sembra possa essere decisiva per le sorti future dell’intero teatro europeo, che ci sembra possa conferirgli un respiro e una visione, a grande raggio. Ma quello che più ci ha commosso, e consolato di molte passate amarezze, è stata la partecipazione unanime e vibrante del pubblico, il brivido e il fuoco che lo ha percorso nel sentirsi finalmente a contatto diretto e profondo con le maggiori verità della vita, che il palcoscenico gli illuminava. Questa volta hanno finalmente trovato un incontro impetuoso, da una parte trasporto e penetrazione degli spettatori, dall’altra potenza e schiettezza dell’opera d’arte. Questo non solo perché qualsiasi opera d’arte in teatro, trova sempre prima o poi eco e rispondenza negli uomini, in strati di mano in mano più vasti. Ma anche perché questa volta, e in modo esemplare, gli interpreti — Rina Morelli, Paolo Stoppa, Vivi Gioi — si sono dati al loro alto compito con impegno ricco di ogni magistero artistico e soprattutto di una convinzione e di una fede tanto decise quanto penetranti, compiute e vitali. Luchino Visconti è stato loro fervido ispiratore, con alta e rara qualità artistica, con una presenza totale e decisiva.

Con tale prova essi tutti si sono posti alla testa del nostro teatro, dimostrando di esserne fra i pochissimi elementi maturi, e coscienti del loro compito. Che era tra i più ardui: sia per la realizzazione artistica dell’opera, sia per la lotta che si sarebbe dovuto sostenere per farla amare dal pubblico, dandone una perfetta rappresentazione.

Perché si era alle prese con una materia quanto mai scottante: quella che solitamente gli uomini sfuggono o tentano di alterare, soprattutto negli strati privilegiati della società. Sono quegli argomenti che feriscono e turbano le coscienze vacillanti od oscure, le coscienze che non osano mai conoscersi e conoscere sinceramente, fino in fondo.

Ma la sincerità nei rapporti umani è il termine d’obbligo, è la condizione stessa della convivenza sociale: l’unico strumento per rendere migliore l’esistenza. La vita è un inferno, se non si raggiunge costantemente una fase di schiettezza morale. Sartre ci ha portato questo inferno sulla scena. È un vero inferno: una camera murata e senza uscite, dove egli immagina sia rinchiuso l’uomo dopo la sua morte, per l’eternità, con gli altri. Pone un esempio: tre creature umane, deboli e viziose come tante, vengono gettate in questa coabitazione forzata, per punizione. I muri bruciano dal calore: ma sono muti e irremovibili. I tre si dibattono vanamente, uno contro l’altro, uno sui vizi dell’altro. Senza la possibilità e la salvezza di isolarsi. Estella è un’infanticida, e si dà senza ritegno ad ogni passione. Ines una lesbica che ha spinto la sua amante al suicidio, per una sorta di sadismo. Garcin un affarista, che è stato fucilato nella schiena per diserzione, e ha fatto soffrire per lunghi anni la moglie. Essi non hanno pace ai loro tormenti, alla sofferenza che dà ad ognuno la presenza dell’altro, fino a che non giungono a confessarsi reciprocamente la verità sulla loro intima natura e non possono parlare tra di loro senza alcuna finzione. Rivedono a tratti il mondo perduto: ma solo per avere la conferma sempre più schiacciante, che i vivi li stanno dimenticando o li hanno già dimenticati. Quelle immagini ritornano lontane e fievoli e poi si spengono senza speranza. Essi sono definitivamente chiusi, murati, stretti fra di loro, in un breve spazio. L’inferno sono gli altri, ed è la loro stessa coscienza, esclamano. E la vicenda appare una trasparente e frenetica allegoria della vita, una sua dura visione, Sartre ci dice che così è la vita, come dato di fatto: ma aggiunge che appunto per questo occorre affrontarla con forza e con severa coscienza morale, ponendosi senza ambagi dinanzi ai suoi termini. Le condizioni in cui è posto l’uomo, la schiavitù che gli sovrappone la Stessa società sono queste: ma lottando e lavorando se ne potranno trarre risultati positivi, fermi avanzamenti. Un realismo così aspro, schietto, deciso, può essere oggi forse lo strumento migliore della nostra coscienza. Per dire e sentire tutto questo, doveva essere posto in luce, evocato quanto sorge nell’animo umano: la sua natura, ogni passione, ogni ripiegamento, ogni slancio, ogni riflessione. La scena era percorsa da pianti e grida, da risa e ragionamenti: in modo sconcertante, impetuoso, sconvolgente. Com’è nella vita.

Precedeva il lavoro di Sartre, un delicato e poetico rinverdimento del mito classico di Antigone, rappresentato in questi anni in Francia, con molto favore. Antigone, in contrasto con il suo sovrano, Creonte, vuole seppellire il cadavere di suo fratello Polinice, morto in una rissa con l’altro fratello Eteocle. Polinice deve invece rimanere dissepolto perché si è ribellato all’autorità statale. E Creonte, per salvare l’autorità statale, deve punire Antigone con la morte, pur ammirando il suo coraggio e il suo amore alla libertà.

Tutti i personaggi sono in abito moderno da sera: l’atmosfera è lirica, immaginosa, nostalgica. Ma sovente Anouilh indulge a una visione piuttosto conservatrice e codina del mito, giustificando in pieno l’opera di Creonte, colla ragion di Stato.

Un’opera degna, ma senza una sua schietta originalità. Elegantissimo ed armonioso l’insieme della scena e degli abiti. Regìa acuta ed attentissima di Visconti. Rina Morelli ha fatto di Antigone una indimenticabile creazione, con soavità e profondità d’accenti.

Vito Pandolfi