I bilanci positivi si ottengono con la pazienza
Vent’anni fa fa lo sapevamo già, tutto questo, sia pure in maniera un po’ più vaga. E se oggi un progresso comincia a esserci, sono convinto che lo si deve anche al nostro lavoro. Voglio dire al lavoro di poche persone che subito dopo la guerra iniziarono in teatro un discorso coerente e appassionato: Strehler, Orazio Costa, Ettore Giannini e io. Bene o male, siamo stati noi a fare il nuovo teatro. E mi pare che oggi i risultati più solidi e chiari abbiano tutti alle spalle una fatica lunga e costante.
Quali sono i fatti più importanti e incoraggianti della stagione? A Milano, Strehler ha presentato il suo Gioco dei potenti, questa specie di «summa» delle sue esperienze scespiriane. Io ho presentato a Roma un Cechov che è sembrato completamente nuovo al pubblico. Dopo di me è venuto Giannini, e il suo ritorno alle scene di prosa, dopo un’assenza tanto lunga, è un fatto pieno di interesse. Anche il suo Mercante di Venezia continua un discorso cominciato più di vent’anni fa. Poi c’è lo spettacolo di Giorgio De Lullo, che io considero un mio allievo. Il suo Giuoco delle parti mi pare una straordinaria rivalutazione critica di Pirandello, fatta su un testo negletto.
Sono tutti risultati di un lavoro almeno ventennale. De Lullo lavora con Valli, con la Falk e la Albani da un po’ meno, ma si tratta sempre di un filone teatrale uscito dalla nostra attività dell’immediato dopoguerra, e comunque dimostra ancora una volta che i bilanci positivi, in teatro, si ottengono solo con pazienza, con una ricerca fatta in gruppo, con una politica culturale coerente. Anche per quel che mi riguarda, sono convinto che oggi dovrei fare un bilancio diverso se non mi fossi impegnato per tanto tempo in un’attività che trovava la sua vera consistenza nella collaborazione stabile e continua con Rina Morelli e Paolo Stoppa.
Al di fuori di questi spettacoli, cosa c’è? Ci sono dei risultati teatrali magari brillanti, ma spericolati, meno maturi, più legati a scopi sensazionali o a trovate pubblicitarie.
Nel panorama d’oggi il fatto più positivo mi pare proprio questo: c’è, accanto alle inevitabili improvvisazioni, un’attività professionale molto seria, qualche volta artigianale e sfortunata, se si vuole, ma solida. I piccoli gesti clamorosi non sono mai un fatto costruttivo, rimangono isolati, non favoriscono nessuna evoluzione, sono senza domani. Mi pare che il teatro, specialmente in un paese come il nostro, abbia bisogno prima di tutto di serietà e di continuità.
Agimmo nel quarantacinque contro il teatro autarchico
Con il lavoro paziente di poche persone, il primo risultato che si è ottenuto è questo: ormai esistono in Italia dei veri quadri di attori. Un teatro senza attori è come un’industria senza materia prima, e uno dei motivi di maggior soddisfazione, per me, è di aver contribuito in maniera abbastanza determinante alla formazione di molti interpreti che oggi si possono considerare di livello europeo. Buona parte della Compagnia dei Giovani, per esempio, proviene praticamente dal mio laboratorio teatrale: in particolare De Lullo, che si è valso di una lunga collaborazione con me per passare così felicemente alla regia. Spero che né lui né gli altri, nella sua ditta, abbiano difficoltà a riconoscerlo.
Adesso è difficile ricordare tutti i nomi che sono passati attraverso il mio teatro. Le glorie già affermate, prima di tutto, come Ruggeri, la Borboni, la Tatiana Pavlova (che non aveva più recitato dopo la guerra e che fece con me Zoo di vetro, diciannove anni fa); Memo Benassi (che fece cose memorabili interpretando Vierscinin nelle Tre sorelle), e perfino Vittorio De Sica (che io diressi nel Matrimonio di Figaro). Con me, Paolo Stoppa uscì definitivamente dai ruoli limitati in cui era stato sempre costretto. Fra i più giovani, De Lullo fece con me tutta la sua carriera d’attore, e anche Gassman (che feci recitare in Rosalinda, nell’Oreste, in Un tram che si chiama Desiderio) uscì felicemente da certi ruoli cui sembrava in un primo tempo destinato. Tonino Pierfederici mise piede per la prima volta sulla scena nei Parenti terribili. Olga Villi, che era una soubrette, recitò in Quinta colonna e in Antigone, vent’anni fa. Rossella Falk lavorò con me nel Tram, nella Locandiera (dove c’era anche Romolo Valli) e nelle Tre sorelle. Ma il caso più interessante di tutti, forse, è quello di Marcello Mastroianni, un ragazzotto che non sapeva dire una battuta e che io presi in Rosalinda di Shakespeare, nel ‘48, dopo di che mi accompagnò per almeno dieci spettacoli, fino a Zio Vania e alla seconda edizione di Morte di un commesso viaggiatore, nel ‘56.
Tutto è molto diverso, comunque, da quando debuttammo noi, registi e attori. Quando noi lo aggredimmo, con le nostre idee e le nostre iniziative spesso considerate folli, il teatro italiano era ancora la conseguenza diretta di quello ottocentesco. Prima di noi, certamente, qualche tentativo di ammodernamento c’era stato: il teatro di Pirandello all’Odescalchi, il lavoro della compagnia di Niccodemi e poi di altre formazioni, come quella di Salvini, che però avevano avuto una vita assai breve. Ma in generale il livello era bassissimo, negli allestimenti come nella recitazione, Per quel che riguardava i testi, era un teatro autarchico, compresso, provinciale.
Credo che ormai lo si possa dire senza offendere nessuno: era un teatro di approssimazione. Sì, naturalmente c’erano degli attori veri. Basta pensare a Benassi, a Cervi, alla Pagnani, alla Morelli, a Ruggeri, a Ricci, alla Ferrati. Tutta gente piena di talento e di mestiere. Ma che aveva, anch’essa, un estremo bisogno d’esser inquadrata in una visione del teatro più ordinata, più disciplinata e cioè più culturale. La campagna condotta per tanti anni da Silvio D’Amico, infatti, tendeva solo a questo.
Luchino Visconti
Roma, 24 marzo 1966
(segue)