Il realismo fu allora una novità sconvolgente

Fu un po’ per caso che io arrivai al teatro, pochi mesi dopo la fine della guerra. Mi chiesero di fare una regia per la compagnia dell’Eliseo, che allora si qualificava già «stabile». Dietro le quinte, il vero finanziatore era il padrone della «Lux», Riccardo Gualino. Faceva da direttore amministrativo Libero Solaroli, che era stato il mio direttore di produzione durante le riprese di Ossessione.

Con un solo film alle spalle, io non avevo mai fatto del teatro, praticamente. Mi ci ero un po’ provato a Milano, quand’ero ragazzo, credo nel ’28. Avevo appena finito il servizio militare e tornando a casa trovai che mio padre aveva appena fondato la compagnia del Teatro dell’Eden, dove fra l’altro debuttò Andreina Pagnani. Io curai semplicemente l’allestimento scenico di due spettacoli. Ma allora pensavo soprattutto ai cavalli.

    Nel dicembre del ’44, quando mi fu proposta la regia dei Parenti terribili all’Eliseo di Roma, la prima cosa che chiesi fu questa: «Quanti giorni di prove mi date?» Mi diedero sedici giorni. Cominciai subito a suscitare i malumori nella compagnia. Allora esisteva ancora, nelle compagnie, il sistema ferreo dei ruoli. La Pagnani era la primadonna, la seconda donna era la Morelli, la Braccini faceva da promiscua-madre, Cervi il primo attore e Stoppa l’attore brillante. Io diedi la parte della seconda donna alla Braccini, feci fare l’attrice giovane alla Morelli, e scatenai il finimondo.

    Queste cose le seppi molto tempo dopo. In quei giorni capivo solo che tutti mi guardavano dall’alto in basso. C’era Cervi che andava in giro dicendo: «Pazienza ragazzi, tanto la commedia casca al secondo atto e non se ne parla più».

    In due settimane riuscii a metter su lo spettacolo. Allora le recite erano ancora diurne, per mancanza di energia elettrica, e noi si provava di sera. Feci io stesso i bozzetti delle scene e provvidi all’arredamento.

    Debuttammo, alla fine di gennaio del ’45, e fu un successo clamoroso. Tutti se ne ricordano ancora. Alla fine dello spettacolo il pubblico salì per le due scalette laterali e invase il palcoscenico, abbracciando gli attori. che erano i più sbalorditi di tutti.

    Quali furono le ragioni di quel successo? Il pubblico, soprattutto, ebbe la sensazione di assistere a qualcosa di assolutamente nuovo. Fu l’estremo realismo della messinscena e della recitazione a coglierlo di sorpresa: fu un po’ come quando, a scuola, si cancella tutto sulla lavagna e si comincia da capo. Nessuno immaginava che si potesse recitare con tanta verità. Lo dice Giorgio De Lullo, che allora era ancora un allievo dell’Accademia d’arte drammatica e che assistette alla prima dalla galleria.

    Per la regia, Gualino mi aveva fissato un compenso di 12.000 lire. Ma dopo un po’ di repliche a teatro pieno, sicuro del risultato, il produttore fu come preso da un lieve rimorso, e mi fece sapere che voleva darmene almeno 15.000. Io, con un gesto d’orgoglio che adesso può sembrare un po’ comico, dissi di no: «Abbiamo stabilito 12.000 e 12.000 sono».

    Dopo i Parenti terribili mi piovvero addosso le proposte più insensate. Mi ricordo che appena finì la guerra nel Nord, per esempio, Remigio Paone voleva a tutti i costi che andassi a dirigere il suo Teatro Nuovo, a Milano.

    A Milano, press’a poco in quel periodo, un giovane regista che non conoscevo, Giorgio Strehler, metteva in scena all’Odeon Caligula di Camus, in un certo senso facendo quello che io avevo fatto a Roma: un gesto brusco e perentorio che staccava il teatro dagli schemi passati. La coincidenza può sembrare strana, ma non lo fu affatto, anche se fra Roma e Milano c’era allora una separazione enorme. In mezzo c’era ancora l’ombra della Linea gotica: ci volevano due giorni di viaggio per arrivare da Roma a Milano. Strehler e io ci trovammo a fare la stessa esperienza, sotto la spinta delle stesse esigenze, ma era come se lui fosse in Groenlandia e io al Congo. Mi ricordo che, tornato a Milano, assistetti a una recita del Caligula. Fui colpito dalla regia e scrissi una lettera a Renzo Ricci, che era il protagonista dello spettacolo. Proprio in questi giorni Nora Ricci, la figlia di Renzo, mi ha detto di aver ritrovato quella lettera. Finiva press’a poco così: «Io non conosco questo Strehler, ma oggi nel nostro teatro, caro Renzo, c’è un estremo bisogno di giovani così, pieni di vero talento».

    Luchino Visconti
    Roma, 24 Marzo 1966

    (segue)