Milano, aprile 1947

Anche a Milano Luchino Visconti ha presentato lo «Zoo di vetro». La commedia di Tennessee Williams non è niente di eccezionale, seppure mi è sembrata immeritevole del giudizio crudo e severo con il quale pressoché tutti i critici dei quotidiani l’hanno respinta. È una piccola cosa, certo, ma una cosa gentile, scritta con la reticenza di un pudore cauto e sottile, ma anche con il soccorso di un ingegno fervido e delicato. Nel dimesso e semplice linguaggio non sono pochi i momenti di autentica poesia, e in tutta la costruzione, nel distendersi della piccola storia e delle immagini, si avverte una sensibilità suggestiva, una accortezza di mano che è tutto fuor che banale e mediocre. Ma il giudizio, ripeto, è stato crudo e impietoso. E allora osservo che, da qualche tempo in qua, i giudizi sono troppo spesso crudi e impietosi. Come se i critici andassero a teatro solo per ascoltare sempre capolavori, e si adeguassero ogni qual volta il capolavoro non c’è.

Ma che si pretende, infine? Ma che cosa sono queste grinte feroci, ma che cos’è questo spezzare in quattro ogni capello, solo perché la commedia ascoltata non è l’«Amleto» o «L’Avaro», o qualche cosa del genere? I critici dovrebbero essere, anzitutto, gli amici del teatro, i suoi buoni consiglieri, i suoi sostegni devoti. Ma io dico che quando i critici, stroncando lo «Zoo di vetro», allontanano il pubblico da una commedia rispettabilissima ed ascoltabilissima, anche se non eccezionale, anche se non «capolavoro», essi diventano i peggiori nemici del teatro, quelli che più possono contribuire alla sua fine.

Ma un’altra cosa vorrei dire, a proposito dei critici milanesi, ed a proposito dello «Zoo di vetro». Luchino Visconti ha offerto in questa occasione — a sue spese — uno spettacolo che, per ampiezza di respiro, per accuratezza di dettagli, per sensibilità teatrale, per ricchezza di invenzioni e di accorgimenti, può sostenere il solo paragone di quel «O voto» che Ettore Giannini — a spese dello Stato — ha presentato recentemente con la compagnia del «Quirino». Nei loro limiti diversi e nei loro diversi obiettivi, questi due spettacoli hanno portato quest’anno in Italia il segno di una piena civiltà teatrale (e c’era stato già un avvertimento: «Piccoli borghesi», messi in scena da Strehler) ed hanno creato quindi «l’avvenimento», il «fatto nuovo» di un teatro come il nostro, ancora tanto indugiante, come livello di spettacolo, su posizioni arretrate e mediocri e su modesti ripieghi. L’una e l’altra regìa, s’intende, restano discutibili come impostazione critica, come «interpretazione». Ma che vuol dire? Forse l’una e l’altra sono stati infedeli al clima esatto (ma c’è sempre questo, clima? E l’esattezza è possibile?) dei testi presentati. Ma non era forse questa un’ottima ragione per accentuare più intensamente il valore dello «spettacolo», per osservare più da vicino le proporzioni e gli elementi tecnici di realizzazioni sceniche inusitate in Italia? Pare di no. Pare di no, perché i critici milanesi hanno speso per questi spettacoli solo le quattro parole di circostanza che usano accompagnare certe modestissime esecuzioni delle abituali compagnie. Ed hanno così inquadrato questi spettacoli nella. regolarità di un costume teatrale che usa ancora le drapperie d’accatto e i «fondalini» dipinti, e la recitazione «arrangiata » in poche prove svogliate. E questo non è bello, ammettiamolo. Non è bello che i nostri migliori uomini di teatro spendano mesi di prove e fior d’ingegno nel fervore di realizzare spettacoli fuor del comune, quando poi persino i critici (non parliamo del pubblico, per carità, che a certe cose «è morto e sotterrato»!) non riconoscono, al di fuori di ogni giudizio interpretativo, almeno l’eccezionalità di «tono» e di proporzioni dello sforzo eseguito. E no è bello che i nostri critici — dico i critici teatrali, che di teatro quindi dovrebbero in un certo qual modo intendersene almeno relativamente solo un pochino, —non si siano proprio accorti che, al paragone dello «Zoo di vetro» o del «Voto», certi spettacoli delle nostre «migliori» compagnie si inquadrano mirabilmente con il livello comune ai teatrini parrocchiali.

E adesso Luchino Visconti si è seccato e se ne torna al cinema. E fa benissimo: chi gli può dar torto?

Gian Maria Guglielmino