Anche se è una tiepida notte d’avanzata primavera Luchino Visconti governa il suo film con il viso affondato in una sciarpa a grossi quadri bianchi e neri. La voce che ordina è pacata, aggressivi solamente gli occhi e le sopracciglia foltissime. Sta dirigendo una scena del film cui pensava da tanti anni, Morte a Venezia, tratto dal lungo racconto di Thomas Mann. È la storia, guardata con occhio pietoso, del drammatico interno conflitto di un artista e della sua drammatica disfatta. È il cammino della distruzione totale di un uomo affermato e stimato sconvolto dall’ambigua passione per un adolescente di bellezza perfetta, Tadzio. E Venezia fa da scenario a questa storia segreta; una Venezia che cerca anch’essa di salvaguardare i suoi segreti: una epidemia di colera. Siamo nel 1911. Luchino Visconti sta girando, come del resto gran parte del film, al Grand Hotel des Bains, un albergo costruito ottant’anni fa, che è stato la scena superba di fasti italiani e europei. Il grande salone, la hall, la sala da pranzo, sono stati interamente ricostruiti (da Ferdinando Scarfiotti intelligente, acuto collaboratore di Visconti non solo in questo film ma anche nel Giardino dei Ciliegi e in Simon Boccanegra) forse non tanto come erano in realtà negli anni che vanno dalla fine dell’800 all’inizio del ‘900, ma con lo spirito eclettico di quel tempo.

Il salone è enfaticamente ultra-arredato. Più di venti angoli con elementi presi da tutte le parti del mondo: poltrone arabiche, sedie a dondolo viennesi, tappeti orientali, tavoli intarsiati di madreperla. Un sapiente collage di cose diverse soffocato da un’esuberanza di palme e ortensie rosa e lilla poste in enormi vasi. E su tutto le luci di enormi lampadari, copia perfetta di quelli del Royal Pavillon di Brighton. La terrazza, invece è arredata solo con mobili di giunco dalle linee frivole, contorte in mille arabeschi, mescolati ancora con molte palme e ortensie. È qui che si sta svolgendo la scena.

Dirk Bogarde, che già con la regia di Visconti nella Caduta degli dei ha interpretato la
parte di un industriale tedesco, è il protagonista. È Gustav Aschenbach, scrittore nel libro di Mann, compositore-direttore d’orchestra nel film. Precisamente Gustav Mahler di cui Mann pare proprio abbia riportato un fatto in realtà accaduto. Baffi corti e folti, occhiali cerchiati d’oro, viso pallido, capelli grigi: così Gustav Mahler appare nelle fotografie, secondo queste immagini, Bogarde è truccato. Sta seduto su una poltrona di vimini, sul tavolino davanti a lui una granatina rossa, le mani tese, nervose sui bracciali, al dito una grossa vera d’oro (Gustav Aschenbach nel racconto ha una moglie e una figlia) lo sguardo teso verso il giovane Tadzio appoggiato alla balaustra. (Tadzio, l’adolescente polacco, è interpretato da Bjorn Andresen un ragazzo svedese di quindici anni, longilineo, biondo, con la bellezza perfetta di una statua greca come descrive Mann). Intorno al filo teso di questo sguardo, senza mai romperlo, seguito da alcuni musici, termina una canzone napoletana con una risata macabra, lacerante alla quale fanno eco quelle del pubblico seduto sulla terrazza e nel giardino dell’Hotel des Bains: la risata sguaiata di una grassa bambina dai capelli rossi, quelle svagate e contenute delle giovani signorine da marito accompagnate da genitori e fratelli, quelle divertite di anziane signore con voluminosi cappelli, quella isterica dell’istitutrice di Tadzio e e delle sue sorelle. A questo punto l’azione termina e l’atmosfera rimane ancora, al di là del limite della finzione scenica, carica di tragici presagi.

Visconti è maestro nell’evocare simili atmosfere oltre che a rappresentare un mondo privilegiato, depositario di lunga tradizione aristocratica o borghese, proprio nel momento in cui, di questo mondo, inizia il disfacimento. I suoi famosi, eccessivi, talvolta costosi perfezionismi, le sue meticolose persino ossessive ricercatezze nei dettagli, che oggi dopo le ultime più nuove esperienze teatrali con attori in blue jeans o comunque in abiti casuali e scenografie approssimative potrebbero sembrare assurdi, esistono ancora oggi. Sono per Visconti l’unico punto fermo e reale di un mondo di cui con tanta efficacia racconta il disgregamento. E così anche per questo film si parla di dettagli esasperati che fanno la gioia dei cronisti e lo scandalo nell’ambiente dello spettacolo. Si parla di francobolli dell’epoca posti sulle lettere indirizzate ad Aschenbach, di una bottiglia di vino Merlot veramente del 1904 servita durante un pranzo all’albergo, di valige siglate, ecc. Ma altrettanta cura e precisione si ritrovano nel lavoro di Piero Tosi, il costumista che da anni segue Visconti. A vederlo girare per le sale dell’Hotel des Bains tra le comparse in attesa di andare sul set, bivaccanti e incuranti degli abiti da lui amorosamente cercati e scelti, sembra Padre Cristoforo nel Lazzaretto, sofferente di fronte alla sofferenza altrui, pronto a portare conforto, invece che ad un appestato, a una piega, a un drappeggio, all’esprit di un cappello. I settecento abiti da lui proposti sono autentici oppure fatti con stoffe autentiche e in tal caso ispirati a quel famoso creatore di moda che fu Worth.

Per Morte a Venezia Tosi, attento alle descrizioni d’ambiente del racconto, ha voluto diversi gruppi di costumi corrispondenti a diversi gruppi di famiglie: una eleganza rigorosa per la famiglia polacca, abiti démodés per quella russa («Perché, dice, i russi sono sempre qualche anno in ritardo in fatto di moda»), un accento vagamente preraffaellita per la famiglia inglese, qualcosa di eccessivo e un po’ di cattivo gusto per la famiglia tedesca. E guardando poi, finalmente sul set le moltissime comparse, che nel film sono le ospiti dell’albergo, italiane e francesi, pare di assistere a una straordinaria riunione di donne uscite dai ritratti di Boldini e dai romanzi di D’Annunzio. Dappertutto un grande ondeggiare di cappelli con aigrettes, tulli ricamati, penne, pennine, fiori, nastri di gros grain rigido («Questo nastro l’ho trovato al Marché aux Puces a Parigi, questo tulle a Roma, a Porta Portese» illustra Tosi). E tra le più anziane passano giovani donne dal viso pallido, appena ma sapientemente truccato, che Gabriele d’Annunzio avrebbe chiamato «Grandi farfalle crepuscolari», «anime ingenue e magnifiche» «magnifiche belve» o «creature uniche e inimitabili». Tosi ha usato per il film una grande quantità di lino bianco o bianchissimo: «Il lino era molto di moda a quel tempo e i colori usati per il giorno erano chiarissimi, una gamma che va dal bianco al giallo tenero. Per la sera invece ho voluto il viola o un intenso verde petrolio. Erano colori di moda allora e di moda anche oggi». È evidente che il famoso quanto discreto costumista si è appassionato alla ricerca sottile di costumi e modi di vita differenti: per lui, al contrario di Cecil Beaton che confessa una passione per il periodo edoardiano, non esiste un periodo favorito. Il suo entusiasmo è in stretta relazione con l’interesse della storia che deve illustrare. Visconti, dopo questa e altre scene all’hotel des Bains, ha continuato a girare sulla spiaggia, a Monaco, su una nave. E ha terminato la lavorazione del suo film, a lungo desiderato, percorrendo le calli di Venezia, descrivendo la lenta insidiosa morte per colera della città. Proprio ora che Venezia stessa, sprofondando, è aggredita da una reale, ancor più tragica morte.

Marina Rovera