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Cannes 1963

Dopo un’infanzia e un’adolescenza abbastanza rigide (tipiche d’una famiglia aristocratica di grandi tradizioni quale è la famiglia Visconti di Modrone) e che lo vide studiare contrappunto, violoncello, emergere al liceo come uno degli allievi più indisciplinati e intelligenti, frequentare assiduamente la Scala e più tardi divenire abilissimo cavaliere alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo, Luchino Visconti ebbe, fra i venti e i trent’anni, una strana e appassionata carriera: quella del proprietario di scuderie da corsa. Per quasi dieci anni si occupò aristocraticamente di cavalli, di allenamenti, si preoccupò di sangui e di incroci, comprò una scuderia ai bordi di San Siro, andò e venne dall’Inghilterra, seguì le corse con esasperata tensione, e la sua mente, per anni e anni, fu abbagliata esclusivamente dai problemi del trotto, dei garretti, dei tendini, del galoppo, dei tempi di corsa. Poi, improvvisamente, durante un soggiorno a Parigi nel 1935, dopo un incontro provocato da Coco Chanel con Jean Renoir che gli propose di diventare suo assistente per Une partie de campagne, Luchino Visconti vide languire, dentro di sé, la passione equestre, ed un’altra passione esclusiva sostituirsi ad essa, e trasformarlo a poco a poco in un uomo divorato dalla violenta ambizione di esprimersi attraverso il teatro.

È proprio in virtù di questa passione esclusiva, infatti, che Luchino Visconti è divenuto il regista che è, e che può permettersi, a cinquantasei anni compiuti, di guardare con disistima i giovani che « a venticinque anni non hanno neanche metà della carica vitale che fortunatamente possiedo ancora »; le persone intelligenti, ma senza esperienza robusta, che eludono sempre i problemi veri; gli artisti impegnati solo per metà. « Un impegno totale, intenso, senza riserve », ecco quello che egli chiede agli altri, invece, in qualità di regista di teatro e di cinema, ed ecco quello che ha fatto nascere tutte le leggende di paura, di soggezione che circolano da anni attorno al suo nome. Ma basta parlare con gli attori che hanno lavorato con lui, o intrattenersi con gli allievi che gli sono stati a lungo vicini come aiuto-registi (fra questi, Francesco Rosi è quello che Visconti ammira di più), perché anche queste leggende acquistino una giustificazione, o per lo meno assumano proporzioni più umane.

Visconti, ad esempio, è forse il regista italiano che sa utilizzare meglio d’ogni altro un attore: non punta soltanto sulle sue qualità ma anche sui suoi difetti, non lo usa come semplice strumento ma come persona da cui cerca di trarre, con abilità rabdomantica, il suo nucleo vivo, naturale (certe occhiate della Cardinale nel Gattopardo, ad esempio, furono colte senza che lei se ne accorgesse durante le ore di riposo, e poi richieste sul lavoro: « Claudia, cerca di dare di nuovo quell’occhiata in tralice che hai dato prima, in trattoria »); gli dà di volta in volta l’intonazione della battuta sostituendosi a lui e recitandogli prima ogni espressione, ogni gesto. Le famose scenate di cui si parla tanto in Italia, perciò, (e che hanno fatto di volta in volta scoppiare in singhiozzi giovani attrici come Ilaria Occhini, o arrossire fino alla radice dei capelli grandi interpreti come Rina Morelli) sono una conseguenza naturale di questo intenso lavorio di rabdomante, sono cioè delle repentine sferzate — «un po’ come si fa con i cavalli » — che si verificano nel momento preciso in cui la tensione autoritaria di Visconti e la sua rigida esigenza all’improvviso si spezzano per la disattenzione o lo sbaglio d’un attore, cedendo a un gelido raptus di collera. « E a questo punto è inutile giustificarsi », dicono i suoi attori, « bisogna lasciare che la grande scenata abbia luogo, come se fosse la scena madre d’un dramma. »

Anche l’aureola di soggezione che circonda Visconti mentre gira un film, e che conduce la troupe a comportarsi con un misto di trepidazione e di paura, riceve da lui stesso una spiegazione abbastanza plausibile: « Un film è, di per sé, un fatto così sbriciolato e occorre un tale sforzo di concentrazione per ricordarsi la fine della scena precedente e l’inizio della prossima, che il regista deve per forza tenere in mano le redini dell’ordine, se non vuole precipitare nel caos ».

E che dire poi della leggenda che lo ammanta fino al punto da essere quasi divenuta oggetto di speculazione pubblicitaria, cioè quella delle sue folli spese per i costumi (bottoni di uniformi non stampati, ma incisi uno per uno, bretelle ricamate a mano), per la puntigliosa riproduzione dei dettagli di un’epoca, per la raffinata ornamentalità degli sfondi? I produttori in segreto se ne lamentano, le comparse ridono di fronte a certe squisite anticaglie scovate dai robivecchi, le sarte cuciono, con un sorriso divertito, autentici merletti a mano in fondo a sottovesti che non compariranno mai dall’orlo della gonna. Luchino Visconti, invece, vive in maniera così perentoria al centro delle proprie esigenze, da riuscire a giustificarsi con perfetta lucidità, con persuasione. « È una leggenda gratuita », ora dice, « perché la verità è questa: che la mia preoccupazione fondamentale, in ogni regia, non ‘è di inventare dettagli raffinati, ma è quella, molto più seria, di ricostruire l’ambiente nella maniera più fedele possibile, e di dare al pubblico la sensazione esatta della realtà. In verità la mia preoccupazione è sempre uguale, sia che si tratti del fasto un po’ consunto d’una famiglia siciliana come quella del Gattopardo, o dell’umile palestra di Rocco e i suoi fratelli, o d’un eventuale ambiente borghese, da miracolo economico, dove non esiterei a servirmi di oggetti d’un lusso lucido e sgradevole ».

Ma la grande verità che spiega molti dispendi bizzarri è soprattutto questa: che Luchino Visconti non costruisce mai i suoi ambienti pezzo per pezzo, non li monta, a strappi, a furia di pensarci sopra, di studiare il testo drammatico, il copione, ma semplicemente li « vede » fin dall’inizio in una specie di chiarissima intuizione a cui deve obbedire per forza: ed è questo, appunto, il segno inconfondibile dell’originalità del suo ingegno. Più tardi, poi, tutto il suo sforzo, tutto il suo impegno perentorio tendono a far corrispondere ogni dettaglio architettonico, ogni faccia, ogni tessuto, ogni pezzo di mobilia a quella primissima, ineluttabile visione d’ambiente. Ed ecco, allora, che la leggenda della sua bizzarria, della sua incontentabilità, nasce soprattutto fra gli scenografi che vanno e vengono ansiosamente, fra le sarte che fanno e disfanno i costumi, fra gli aiuti che frugano instancabilmente nei mercati popolari, nelle botteghe d’anticaglie, fra le costumiste che corrono, incalzate da commenti brevi, sferzanti.

Ottenere tutto questo, però, impegnarsi sempre fino in fondo, pretendere da sé e dagli altri il rendimento e la partecipazione massima, non concedere nulla al caso, ma pianificare tutto rigidamente, lucidamente, è, in realtà, un’impresa durissima. O meglio ancora è un lavoro tenace che impone alla personalità di asciugarsi a furia di sacrifici, di durezze, di rinunce faticose, di insofferenze, di esclusioni.

E infatti, arrivato ai traguardi artistici che sappiamo, nutrito di successi, di programmi intensi per il futuro (un episodio della Bibbia da girare in Egitto, un film dallo Straniero di Camus), che cosa c’è rimasto, oggi, in realtà, del « personaggio » Visconti, che non sia un rigore insofferente, quasi amaro, una tenacia sofferta, un ingegno scarnificato, solitario? Tante cose della vita, ormai, gli sono lontanissime: Roma, per esempio, gli è estranea, nonostante ci viva da vent’anni gli dà un senso di provvisorietà, lo fa sentire « di passaggio », e riesce ad accettarla solo in funzione del proprio lavoro che si svolge laggiù.

Molti conoscenti si sono allontanati da lui, a causa del clima di soggezione che il suo carattere perentorio gli crea fatalmente attorno, ma nello stesso tempo egli dichiara di essersi stancato, ormai, della vita sociale, della mondanità, e di ricevere continuamente questo rimprovero dagli amici: « Ah, come sei scontroso! Ah, come diventi sempre più orso! ».

L’industria cinematografica di Hollywood, dalla quale ha ricevuto, anche di recente, offerte importanti, gli appare un meccanismo così mostruoso e schiacciante da fargli giurare di non mettere mai piede in America per ragioni di lavoro. Le sue convinzioni politiche,
che clamorosamente contrastano con la ricchezza e con l’eleganza un poco fastosa nella quale vive, gli hanno creato molti ambienti ostili, nel Paese, a cui egli fa fronte con una concentrazione ancora più dura nel campo del lavoro. La vita estroversa — divertimenti, week-ends, spostamenti continui — non lo attrae più, perché gli sembra che lo distolga da ciò che egli chiama « i nutrimenti assoluti d’un artista nell’età matura », come la lettura di un bel libro, o la meditazione in solitudine.

L’esistenza stessa, infine, a guardare oggi il suo viso teso, e la durezza del mento, e le labbra un poco sprezzanti mentre ripetono ancora parole come « concentrazione assoluta, partecipazione intensa », sembra che abbia valore soprattutto per questo: per l’impegno ostinato che egli pone, ogni giorno di più, nel capire i problemi importanti che coinvolgono l’uomo e per costruire lucidamente grandi archi romanzeschi di immagini, nei quali non una persona soltanto, ma l’uomo intero possa riconoscere il proprio destino.

Grazia Livi

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