Cannes, maggio 1963

Sulla sua scrivania si affollano i simboli dell’ultimo successo clamoroso: i cablogrammi ammucchiati in fasci azzurri, la Palma d’oro che spicca contro la custodia color cremisi, i ritagli di giornale che inneggiano alla vittoria del Gattopardo, del Guépard, le orchidee, la bottiglia di champagne dentro il porta-ghiaccio lucente. Dalla finestra spalancata sulla costa entrano vivide luci, si vedono ancora oscillare gli alberi bianchi dei panfili, i vessilli variopinti del festival, ma Luchino Visconti gli siede proprio dinanzi, in controluce, misurato nel gesto che riordina i messaggi, annota, fa tacere lo squillo imperioso del telefono, come se niente, in realtà, possa dare alla sua consapevolezza di regista europeo un tocco di nervosismo, d’euforia. « Niente, niente. Sono talmente abituato a tutto, Alle vittorie, alle lotte, alle combutte contro di me, alle sconfitte ». La sua faccia, voltandosi, ha bagliori d’ironia contenuta: la fronte è alta, con una punta di sprezzo nelle sopracciglia molto folte, il naso è dritto, volitivo, e a tratti una tosse roca lo scuote.

Ora entra un cameriere col vassoio del caffè e Visconti si alza in piedi con un « grazie » perentorio; un fattorino porge dalla porta un altro fascio di messaggi ed egli li scorre con distacco; il telefono squilla di nuovo bruscamente per una interurbana da Parigi ed egli taglia corto: « Merci, Pierre, je suis content surtout pour le producteur. Oui, pour Lombardo. Ha fatto uno sforzo enorme, il successo ci voleva ». Poi: « Ah, questo squillo maledetto », dice con rabbia, riappendendo il microfono, e dal suo sguardo non traspare nulla: solo la consapevolezza secca e un po’ altera di chi s’è dedicato per anni a una incessante fatica di creazione, e che oggi ne è così posseduto da non aver più dubbi su se stesso, né disponibilità per le cose impreviste, per gli estranei.

« Ecco, ora parliamo in santa pace », dice mostrandomi la poltrona di broccato, e benché adesso abbia l’aria di volersi rilassare, e una camicia scura a rigoline compaia dall’apertura della giacca, e un odore un po’ agro si effonda dal fazzoletto che spunta dal taschino, pure si intuisce che anche questo relax ha una funzione precisa, programmata, e che in realtà non lo distoglie, ma stimola la lucida consapevolezza di se stesso.

A cinquantasei anni d’età, infatti, Luchino Visconti è ormai un personaggio che ha sperimentato tutto, che s’è cimentato in tutto e che vive, da protagonista superbo, al centro delle proprie realizzazioni faticose: le regie teatrali che dal 1945 in poi rivoluzionarono lo stagnante teatro italiano guadagnandogli di colpo, per usare le parole di Silvio d’Amico, « il ruolo più innovatore, appariscente e clamoroso »; la recitazione degli attori che egli fu il primo a ripulire, ora con la violenza, ora con la cortesia più melliflua, da ogni gigioneria, da ogni facile singulto, o grido, o risata di mestiere; le scene liberate di colpo dalle quinte traballanti, dalla polverosa presenza del suggeritore, dei guitti; il pubblico non soltanto intrattenuto dai suoi spettacoli, ma spesso abbagliato (e fu ancora Silvio d’Amico a deplorare, ad esempio, che i personaggi dell’Oreste di Alfieri fossero stati addirittura « sommersi dentro i merletti, le piume, i guanti del più pomposo sfarzo barocco »); i film che si sono succeduti ogni tre anni fin dal 1943, l’anno della contrastata presentazione di Ossessione; i premi, infine, accettati con alterigia ogni volta che non gli venivano offerti per unanime consenso.

(…)

L’assegnazione della Palma d’oro al Gattopardo, perciò, non può rappresentare oggi per Visconti nessuno stupore, nessuno stimolo nuovo, ma può essere semmai la conferma d’una idea nella quale egli crede fortemente: quella che il cinema debba tornare a raccontare storie che « stanno in piedi », a narrare  destini di uomini che abbiano un principio e una fine, a costruire grandi romanzi di immagini. « Basta con lo sperimentalismo, basta con i tentativi che si prestano al bluff », ora dichiara con la voce che ha note fredde, perentorie nel fondo: « Tutto questo disordinamento ha avuto la sua utilità, ma ormai ha fatto il suo tempo. Ora occorre ricomporre di nuovo un ordine, occorre studiare seriamente i mezzi del cinema. Un po’ lo stesso fenomeno si verifica nella pittura: l’astrattismo, che s’era prestato a tanti bluff, ora sta cedendo di nuovo di fronte all’avanzata del figurativo ».

Pur riconoscendo la presenza di alcuni registi d’eccezione, come Fellini, Antonioni o Resnais, forse nessun regista, al giorno d’oggi, è più severo e insofferente di Visconti verso il cinema cosiddetto di avanguardia. Lo infastidisce, ad esempio, l’incapacità tecnica di quei registi improvvisati che gli chiama ironicamente « i non addetti », i quali speculano sulla propria impreparazione e tentano di far passare i bruschi stacchi, i traballamenti della cinepresa, le inquadrature  sghembe per altrettante tecniche innovatrici. Lo disturba, in certi film, la presenza d’una vicenda troppo personale, la quale aggredisce presuntuosamente il pubblico come se fosse un vicenda universale nella quale ogni spettatore deve riconoscersi per forza (e qui è chiara l’allusione a Otto e mezzo di Fellini). Lo annoia la problematica moderna, inventata da certi « topi da cineteca », come l’incapacità a comunicare, il distacco nevrotico dalla realtà, la noia, e lo indigna il loro tentativo di farla passare per una problematica tipica dell’uomo d’oggi. « Con tutto il rispetto che ho per Antonioni », ora dice, « va benissimo che mi presenti, nella Notte, una ragazza come Monica Vitti che se ne sta seduta su uno scalino durante la festa, muta e chiusa, a giocare con la borsetta. Ma che tenti di farmela passare per un campione rappresentativo dell’umanità di oggi, ah no, a questo mi ribello! Perché quella ragazza va semplicemente infilata in una clinica! ». Lo irrita, infine, la tendenza di molti registi d’avanguardia a esporre semplicemente una situazione, senza risolverla, senza approfondirla (registi « orizzontali », li chiama, non « verticali ») e di conseguenza la loro incapacità a provocare vere tragedie di uomini.

« E invece ci vuole volontà di andare a fondo nelle cose! Ci vuole umanizzazione! », adesso afferma con insofferente energia, e intanto cita testi di Stendhal, di Flaubert, dove l’incomunicabilità era già espressa in una trepidante mano femminile che si rifiutava per anni e anni a un contatto. « I concetti di vecchio e nuovo non esistono. Esiste soltanto la vera competenza professionale, esiste la capacità di esaltare il problema di un uomo fino a farlo diventare il problema di tutti », egli insiste, mentre la sua faccia, dopo aver evocato i frigidi a ambigui motivi della situazione cinematografica mondiale, ora emerge come una maschera toccata da una consapevolezza sprezzante.

Questo, infatti, è il segreto dell’autorità di Luchino Visconti, che si mantiene indiscussa, nonostante contrasti e polemiche, da un trentennio: l’ingegno lucido che ha sempre cercato di scavare nel cuore dei problemi, magari peccando di esasperazione, di realismo frenetico (e certe scene di Rocco ne sono l’esempio), e la volontà inflessibile che ha costruito tenacemente, spettacolo per spettacolo, la propria competenza professionale. « Oggi si predica agli uomini un certo distacco dalle cose, io invece posso dire sinceramente questo di me: che ho sempre avuto una partecipazione intensissima a tutto », ora aggiunge, e intanto congeda con un gesto perentorio un conoscente che fa capolino dalla porta. La sua vita stessa, la sua carriera, del resto, ne sono una riprova.
(segue…)