A dura prova anche il coraggio del borghese Visconti
Il nostro cinema si è ormai alquanto distaccato dall’ispirazione documentaria che lo ha caratterizzato negli anni del dopoguerra. A chi voglia analizzare le ragioni di questo spostamento la sucessione delle opere di Luchino Visconti può offrire dati preziosi. In La terra trema ci sono gli elementi che possono spiegare il successivo frammentario procedere del film italiano.
È noto che il cinema italiano tende oggi alla rappresentazione di vicende e fatti della vita borghese (Europa ’51, La provinciale, i film di Antonioni, Le infedeli, La spiaggia) e si è alquanto distaccato dall’ispirazione documentaria, da quel verismo sentimentale così mal definito da noi (e peggio dal termine «neorealismo») che lo ha caratterizzato negli anni successivi alla fine della guerra.
In verità, l’interesse per episodi marginali della nostra società e per l’inesauribile aneddotica del costume italiano non si era mai spento, neppure negli anni di più viva, evidente unità di ispirazione ideale: registi come Lattuada e Castellani, Soldati e Zampa richiamano un tipico e particolare sapore nostrano, una tendenza — talvolta una vera e propria coazione — a ripetere itinerari sentimentali anche consunti, e definiscono in somma un mondo, una «provincia» di preciso contorno, di non lontane aspirazioni, immediatamente percepibile. Di questi nomi ci possiamo valere per un richiamo al passato dei Blasetti e dei Camerini; lo stesso è di quegli autori di oggi, che ne rinnovano la vena tradizionalmente briosa, di non grande impegno morale, negli appunti di provincia di Felini, negli ammicamenti vernacoli di De Filippo, nei contributi ai neorealismo di Emmer. Siamo, evidentemente, sul piano della cronaca, qualche volta spicciola, più o meno di costume. Il linguaggio dell’attualità è perduto. E non lo ritroviamo in quei tentativi più precisamente borghesi, già accennati: in Antonioni, che faticosamente spunta le proprie belle possibilità sfondando la porta aperta della nostra presunta high life; in Soldati che, dopo le lunghe vacanze, prova a ridarci una storia, nemmeno la migliore, di bovarismo provinciale, tradito, per il bovarismo, da un’attrice, e da se stesso per quanto riguarda la provincia. Di una particolare attualità sembra ritrovarsi il motivo in Europa ’51 di Rossellini (o meglio, nel primo, immediato scorcio del film) dove il regista propone i rapporti di una madre ricca (ma donna, e viva) col proprio bambino, nevrastenico incipiente. Ma le successive vicende del film sono a tutti non benignamente note.
Qual’è la ragione non solo di questo previsto ritorno borghese e paraborghese; ma dei modi e delle regole espressive che lo caratterizzano? Si tratta infatti di modi e regole che denotano disagi, incompletezze, unilateralità che assai sbrigativamente si collegherebbero a situazioni contingenti. Nel tentativo di analizzare gli ultimi sviluppi del nostro cinema, manca sopra tutto una prospettiva esattamente collocata, che dovremo procurarci altrimenti.
La caduta del fascismo, la guerra di liberazione e la pace imposero una nuova attualità nazionale, del tutto sconosciuta ai più. La propose al cinema Rossellini (che non fece altro, in seguito) con Roma città aperta e Paisà; la intuì generosamente De Sica, che trovò in Zavattini l’ideale ispiratore di Sciuscià e Ladri di biciclette. Ma questa nuova attualità, che attendeva di trasformarsi per fondersi tutta in realtà d’arte — l’unico sistema conosciuto, da che mondo è mondo, dal progresso civile — era pur stata preparata. Luchino Visconti, creatore nel 1943 di Ossessione, uomo di punta della nuova cultura borghese italiana, uno dei pochi che avevano cercato ed avuto la possibilità di non perdere i contatti col mondo pensante al tempo della paralisi fascista, aveva posto non soltanto le basi rivoluzionarie di nuove condizioni espressive, per un paese rinnovato; ma sopra tutto, aveva iniziato un processo di revisione umana della società e della nazione, quale solo l’artista, e l’artista realista, può fare. Ossessione fu intelligentemente definito lo «sciopero» di Visconti, perché dello sciopero aveva il senso tremendo della attesa, della forza cosciente e tranquilla: fu l’inizio di un dialogo acre, ma inevitabile e assolutamente necessario, tra il nuovo intellettuale borghese e la classe che l’aveva espresso dal suo seno. Consapevole, Visconti, dei legami che a quella classe finivano per assimilarlo (né avrebbe potuto separarsene del tutto per il futuro, e ci sarebbe stato da meravigliarsi del contrario), cosciente altresì dei propri diritti, muovi e conquistati, questo dialogo, però, non fu concluso, e neppure ripreso, se non incidentalmente.
Visconti, che aveva girato Ossessione ad Ancona e sul Po, che aveva «scoperto» il Po e una vera città italiana, nel 1947 andò in Sicilia, nello sconosciuto paese di Aci Trezza a realizzare La terra trema. Fu un silenzio assai lungo, dal 1943 al 1947, e probabilmente significativo. A ragion veduta, si può riconoscere, nel Visconti di quegli anni, l’ambizione dell’uomo e dell’intellettuale di arrivare a dire la parola definitiva, di concludere i generosi, disorganici tentativi altrui, destinati irrimediabilmente ad assottigliarsi col tempo, come ogni slancio non minuziosamente calcolato, cioè, in fondo, romantico.
Rossellini non indugiava oltre l’ultimo film della sua trilogia sulla guerra, Germania anno zero, per perdere del tutto l’istintivo e, probabilmente, casuale contatto stabilito con il momento storico, dalle opere per cui sarà ricordato. De Sica e Zavattini di impulso correvano verso la satira polemica di Miracolo a Milano, verso la delusione di Umberto D. Per De Sica e Zavattini, giova ricordarlo, l’unico mezzo di fare del neorealismo fu una generosità totale — il loro punto di fusione —, la rottura completa dei ponti con tutta la società italiana senza discriminazioni, nell’utopistica ricerca di una società nuova, ben diversa da quella rinnovata che Visconti invocava con Ossessione. Le opere di De Sica e Zavattini, le più tipiche, nacquero in un’atmosfera di libertà sentimentale, urgente per essi forse ancor più dal punto di vista umano e individuale che da quello artistico. Ancora una volta si deve contrapporre ad essi la figura di Visconti i cui precedenti culturali e la cui ambizione facevano sì che mirasse ad altro che a libertà sentimentale: ecco, di nuovo, una spiegazione del suo silenzio, per lo meno sorprendente in quegli anni che sono, per il Brancati (anche il Brancati è per la «libertà sentimentale») «l’unico periodo in cui in Italia si ragionò civilmente».
Nel 1948 uscì La terra trema. Il passaggio da una critica coltivata in rigido individualismo, dalla recriminazione dettata in ultima analisi da superiori esigenze culturali, dall’urgenza, a lungo costretta, di dire finalmente, sia pure con linguaggio contraddittorio ed anche opaco, una parte di vero (fu forse questo il clima viscontiano all’epoca di Ossessione), alla possibilità di esprimere la vita di una delle regioni italiane socialmente più retrive, appesantite nell’anima da esperienze dolorose che hanno inciso fino al profondo l’istinto delle popolazioni, fu un passaggio attraverso il filtro, finissimo di una sensibilità tra le più educate della nostra cultura, ma non per questo meno brusco.
Visconti diede tutto, il paese, gli uomini e la loro vita e le donne e il male e il bene. Il suo documentario umano fu perfetto. Ma dove non riuscì, e urtò violentemente contro tutto se stesso, fu nell’attimo in cui chiese al pescatore di Sicilia di essere come l’operaio della Fiat, come il fonditore delle Reggiane. Questo, ’Ntoni Valastro non lo poteva fare, a pena di diventare personaggio antistorico, come diventò, e di rompere quell’unità morale che, mantenuta, sarebbe stata il segno del più grande romanzo italiano contemporaneo.
In questo delicato punto di frattura riteniamo di dover collocare l’interruzione artificiosa del dialogo tra il nuovo intellettuale borghese Visconti, il più qualificato a sostenerlo, e la sua classe d’origine. Anche Visconti ha accettato, a questo punto, quella retorica inferiorità nei riguardi della borghesia che caratterizza molta nostra cultura progressiva, e spinge, con una urgenza che gli intellettuali comunisti in sostanza non condividono, ad affermazioni polemiche soltanto verbose, senza dimostrazione drammatica, senza conflitto. In La terra trema, da questo punto di vista, sussistono tutte le ragioni adatte a spiegare il successivo frammentario procedere del cinema italiano.
L’equivoco borghese, affrontato con coraggio da Ossessione, non è stato concluso ma eluso da La terra trema. E questo non tocca minimamente l’eccezionale valore dell’opera in sé, che non si è, deliberatamente, inserita nel dialogo aperto da Ossessione (e nella nostra perplessità circa la cronologia spirituale delle opere di Visconti, sappiamo bene di non essere soli).
In parole povere, il «processo alla città», dopo l’istruttoria di Ossessione, non è stato fatto; non si è parlato, da pari a pari, con la borghesia, con la «città» italiana che sopra tutto nel nord è essenzialmente borghese (non si allude ad una condizione economica, ma ad una mentalità). Al contrario, con apprensione si è visto, nel film di De Sica, il piccolo Bruno contrapposto a un enfant gaté tolto di peso dal Cuore deamicisiano.
Quella minima parte della borghesia italiana che sono i ricchi, ha visto con sollievo che la frattura non si colmava ancora, che il contrasto di tradizione romantica, tra il «gran cuore» del povero e il «divismo» del ricco, era ancora in pieno vigore. L’istinto inesauribile, la psicologia tipica dei nostri ceti meno abbienti è ancora la grande risorsa di quei pochi industriali, nemmeno tanto capaci, che ci sono in Italia.
Questa è, a nostro avviso, l’origine di quel cinema borghese e paraborghese indeciso e frammentario di cui si faceva cenno all’inizio. Una cinematografia che ha conosciuto Ossessione, Paisà, La terra trema non può più, evidentemente, accontentarsi di personaggi d’altri tempi o di macchiette provinciali. Soltanto un regista, dopo Visconti, ha mostrato interesse al centro del problema, Luigi Zampa. Ma su Zampa è del tutto privo di elementi essenziali un eventuale giudizio: si tratta di accenni, di appunti.
Non abbiamo, fin qui, parlato di Bellissima, opera che a nostro avviso trova spontaneamente i suoi limiti nell’attività di Visconti, ed importa sopra tutto come ritratto femminile, come è stato esattamente rilevato da Alvaro e da Aristarco. La nota più saliente della Maddalena di Visconti è nel coraggio che la distingue dalle altre felici creature femminili della nostra letteratura cinematografica, le donne in attesa di La terra trema, la solare Carmela di Castellani, la triste cameriera di Umberto D, e tutte risentono del pesante retaggio di inferiorità sessuale che il clericalismo del nostro paese di certo non contribuisce ad attenuare. Non Maddalena. Come l’Annunziata di Cristo fra i muratori chiude il suo dolore nella domanda, agli industriali che le versano l’indennità: «Questo vale la vita di un uomo? Che ne sapete voi di quanto era per me?», così la Maddalena di Visconti, raccontando a se stessa una storia di aspirazioni piccolo-borghesi, la sua, capisce infine di voler sfruttare egoisticamente la bambina: «Come la volete, coi ricci, senza? Ce la teniamo così com’è, io e suo padre», risponde agli speculatori del cinema. È in due situazioni di evidente diversità, la stessa fondamentale scoperta di se stesse nel dolore, compiuta da due donne. Con questo grande pregio, Bellissima si colloca dunque nei limiti di una storia squisitamente individuale, e in questo senso non crediamo sia da ritenersi opera essenziale, almeno ai fini del nostro discorso.
Si dirà a questo punto, che Visconti non ha potuto realizzare Cronache di poveri amanti, Pensione Oltremare, Marcia nuziale. Si dirà forse che questo sarebbe stato l’itinerario viscontiano, e che sarebbe sopra tutto valso a porre nella giusta prospettiva La terra trema (anch’esso, del resto, soltanto parzialmente realizzato). E sia vero. Ma la realtà è diversa, e le opere non realizzate non fanno storia. Difficilmente si potrebbe rispondere altrimenti.
Per concludere, vorremmo accennare al pericolo insito nel cristallizzarsi su formule che, sperimentate con successo in una ben determinata contingenza, si rivelano in seguito anacronistiche e sterili, superate dalle nuove situazioni «in itinere». Certe polemiche, quando si rivelano fini a se stesse, divengono manifestazioni di demagogia e cadono nell’astratto. Questo è, notoriamente, il malanno cronico della nostra cultura. Noi siamo dell’avviso che il cinema italiano non abbia completamente risolto il problema dei rapporti con la società, tutta la società, italiana. I contrasti fondamentali della moderna civiltà sono noti, ma noto è anche l’elemento nuovo — lo si chiami «distensione» o «guerra educata» non importa — che da qualche tempo si è inserito non appena nei rapporti di politica estera. È, può darsi, un’occasione da non perdere per la cultura italiana, che da troppo tempo rincorre la cultura europea. L’essersi imposto, proprio il cinema, come la forma d’arte più viva e ispirata in questo dopoguerra nazionale, è fatto prezioso, fondamentalmente per l’unità spirituale del paese. Ma a noi non sembra che il legame critico e storico con la prima tradizione dell’unità nazionale, interrotto dal fascismo, sia stato ristabilito in modo tale da permettere il rivolgersi tranquillo di ogni energia in avanti. Si può ripiegare su se stessi in diverso modo: come Umberto D o come Maddalena. E noi speriamo che il nostro cinema abbia il coraggio di Maddalena.
Gian Piero Dell’Acqua
Torino, gennaio 1954