Gli scrittori americani della nuova generazione vanno all’assalto della roccaforte di O’Neill

Marzo 1951

L’unità, che il dramma americano contemporaneo aveva conquistato attraverso la costruzione rapsodica e romantica di Eugene O’Neill, negli ultimi lustri è stata sottoposta dalla più giovane generazione di commediografi ad un’accanita opera di revisione e di disintegrazione.

La revisione si è esercitata essenzialmente sul terreno spirituale. I personaggi conclusi di Eugene O’Neill vivono sempre fuori dal tempo e dallo spazio, in un clima di pura fantasia: sono creature emblematiche, chiamate a rappresentare un particolare momento dell’anima umana considerata nella sua universalità. Lo stesso Imperatore Jones, che sembra collocato, per il carattere della sua vicenda, per il colore della sua pelle e per la natura del suo dramma, in un’atmosfera storicamente definita, in realtà è soltanto un simbolo: il simbolo dell’eterno conflitto fra l’orgoglio e la paura, espresso nella sua accezione più generale e più astratta e perciò con uno spirito profondamente unitario.

Gli scrittori teatrali della nuova generazione hanno sottoposto il mondo di Eugene O’Neill, la sua concezione del personaggio, alla critica che in essi nasceva spontanea da un senso più immediato e più preciso della realtà, da un amore per l’avventura umana colta nella sua ben definita e quasi individua particolarità, da una glorificazione drammatica della contingenza molto intonata al senso di velocità dominante nella nuova civiltà americana. Contro l’emblema di Eugene O’Neill essi hanno eretto la cronaca, talvolta persino la cronaca quotidiana, registrata con lo sguardo approssimativo del giornalismo o con quello gelido del documentario cinematografico. Gli interni di Sidney Kingsley in Detective Story sono ritratti asmaticamente, con stile giornalistico; quelli di Clifford Odets in Svegliati e canta! invece sono riprodotti obbiettivamente, con stile cinematografico.

Alla revisione, esercitata sul terreno morale, si è accompagnata un’opera di disintegrazione, che di quella appare come la necessaria conseguenza e la manifestazione più propriamente tecnica nell’ambito del linguaggio teatrale. La struttura del dramma in Eugene O’Neill è, nonostante tutto, profondamente unitaria come la sua ispirazione morale. Anche nelle opere più frastagliate e voluminose, gli episodi si succedono l’uno all’altro sovrapponendosi come le pietre di un edificio, secondo un disegno rigorosamente preordinato. Da questo particolare punto di vista Eugene O’Neill può ricordare benissimo Paul Claudel, il Claudel di Le Soulier de satin. Gli scrittori teatrali della nuova generazione americana hanno invece attuato una struttura drammatica decentrata, che non nelle sue istanze spirituali, ma certamente nel suo orientamento tecnico, ricorda singolarmente le opere di Anton Cecov. Come i drammi più famosi del grande scrittore russo sono le annotazioni dialogiche di un diario lirico, così molte opere dei nuovi commediografi americani sono le annotazioni dialogiche di un diario inteso a fissare alcuni momenti particolarmente significativi della cronaca di ogni giorno. L’unità del dramma, affermata da Eugene O’Neill, è respinta, per far posto ad un frammentismo episodico.

Anche Morte di un commesso viaggiatore, la commedia di Arthur Miller messa in scena da Luchino Visconti al Teatro Eliseo di Roma, rientra in questo quadro generale. È un’opera dispersiva, cronistica, ispirata all’osservazione di una realtà immediata e particolare. Il protagonista, Willy Loman, è un commesso viaggiatore che per trentasei anni ha lavorato al servizio della stessa ditta, sognando la ricchezza. In realtà egli si è trascinato sempre sulla aspra strada di una decorosa indigenza ed ha potuto soltanto acquistare a rate una modesta casetta nel quartiere periferico di Brooklin. Ad un certo momento, per ritrovare un equilibrio interiore, Willy ha riversato tutti i sogni traditi dall’esperienza sui suoi figli, Biff e Gio. Ma anch’essi si sono rivelati in diverso modo due inetti già destinati al fallimento.

Quando dopo trentasei anni di vagabondaggi per la provincia, è licenziato dalla ditta, perché l’età e la stanchezza gli impediscono di fare buoni affari, il povero Willy è proprio come un limone spremuto gettato per istrada. Non ha un soldo per pagare l’ultima rata del debito contratto per l’acquisto della casa; deve accettare un prestito da un parente compiacente; non può neppure aiutare i suoi figli a risollevarsi. Solo una strada rimane al commesso viaggiatore: uccidersi, perché i suoi eredi possano riscuotere il premio dell’assicurazione e costruirsi una nuova esistenza con un pugno d’oro pagato a prezzo di sangue. Sul panorama desolato di queste vicende, raccontate attraverso una successione di quadri disegnati cinematograficamente con ritorni nel tempo e con evasioni dalla realtà verso il sogno, domina immacolata soltanto la figura di Linda, la moglie di Willy, che, in preda ad una allucinazione tranquilla e costante, vede nel suo debole uomo un piccolo eroe immeritatamente sconfitto.

Il decentramento della rappresentazione drammatica — che nella commedia di Arthur Miller è accentuatissimo — non distrugge l’unità lirica di un’opera soltanto quando dal complesso degli episodi narrati scaturisca, come nei capolavori di Cecov, un clima unitario, cioè quando ai soppressi legami esterni della vicenda siano sostituiti altrettanti legami interni, spesso inavvertibili, ma non per questo meno solidi. Allora i frammenti si ricompongono come in un mosaico e poi divengono momenti di una pittura distesa senza soluzioni di continuità. Ma, a nostro avviso, nella Morte di un commesso viaggiatore il frammentismo rimane tale, perché la commedia è puramente cronistica, cioè è registrazione di puri e semplici episodi (quello centrale del suicidio può già ritrovarsi nella precedente commedia di uno scrittore italiano, Buon viaggio, Paolo! di Gaspare Cataldo, e il tema della morte come unico mezzo di riscatto economico nel romanzo Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato); ma non possiede un suo centro di gravità lirico.

La storia di Willy Loman è senza dubbio quella di un piccolo borghese implacabilmente distrutto dalla civiltà capitalistica americana; ma è anche la storia di un padre che cerca di far rivivere i suoi sogni attraverso i figli; è la storia di un uomo che, circondato da un mondo ostile, attua se stesso nell’amore della sua fedele compagna; e, infine, è la storia di un inetto che, anche in una civiltà. diversa, sarebbe finito sconfitto per la sua inettitudine. Quale di queste storie prende il sopravvento e conferisce unità al loro disperso complesso? In realtà nessuna: nel corso della commedia, tutte per un momento appaiono in primo piano e non perché il loro fugace rilievo debba assumere una funzione prospettica nella pittura del dramma, ma soltanto perché lo scrittore, vinto dall’urgenza della materia trattata, non ha saputo fissarla nella sua giusta distanza. L’intenzione del Miller è evidentemente sociale ed ha trovato un suo puntuale riflesso nella bella scena di Gianni Polidori dove la casetta di Willy Loman, fragilmente disegnata, appare soffocata dalla selva dei grattacieli. Ma i momenti più persuasivi della commedia sono quelli nei quali il padre si tormenta perché tutte le sue speranze rivivano nei figli, che egli vede grandi e forti come desiderava essere e come non è stato.

È assai difficile stabilire quale possa essere la migliore traduzione scenica di un’opera così dispersiva ed ambigua. Per un’opera come quelle più raggiunte di Cecov, nelle quali dal decentramento esteriore si risale gradatamente ad una ferrea unità interiore, il problema è senza dubbio arduo, ma chiaro nella sua impostazione: lo spettacolo deve rendere quest’unità lirica dell’opera, presentando ogni frammento, ogni episodio nella luce particolare che gliene deriva. Ma, quando l’unità interiore è inesistente nell’opera, può essere ricostituita dallo spettacolo? Noi non lo crediamo possibile. Lo spettacolo ha sempre il suo limite insuperabile nella qualità dell’opera rappresentata. Anche se alcuni registi non vogliono rendersene conto, bisogna convincersi che un’opera poeticamente fallita può dare soltanto uno spettacolo fallimentare.

Luchino Visconti ha tentato di conferire un’unità a Morte di un commesso viaggiatore, accentuandone l’intonazione sociale sia attraverso la scena sia attraverso il disegno dello stesso personaggio di Willy Loman, del quale ha fatto un miserabile scorticato fisicamente e moralmente dall’ambiente, La civiltà dell’oro è per Willy Loman un bagno di acido prussico che ogni giorno rosicchia inesorabilmente un brandello di carne. Il decoro, con il quale il commesso riesce a presentarsi in qualche momento, è fatto di rappezzature amorosamente eseguite da Linda a forza di aguzzare nella penombra dello squallido tinello. Ma questa accentuazione sociale della commedia in alcuni momenti non regge; non regge quando Willy Loman è soltanto il padre o è soltanto il fanciullino protetto dall’amore di Linda o è soltanto un pover’uomo inferiore alle responsabilità della vita. Allora il quadro dello spettacolo non si intona più all’azione, sebbene tutti i suoi momenti siano accuratamente ricuciti da un motivo ossessionante che si ripete dal principio alla fine: lo stridio di un clarino, che è quasi il lamento segreto di Willy Loman. Ma anche questo motivo immutato ed insistente finisce col diventare un pretesto di unità formale. Il lamento di Willy Loman non è uno solo; sono tanti lamenti, che Arthur Miller ha raccolti, ha registrati, senza tentarne l’accordo.

Perciò molto spesso la regia di Luchino Visconti diviene un esercizio di stile concertato con estrema raffinatezza che nella partitura del testo trova un sostegno inadeguato. E lo stesso deve dirsi naturalmente della interpretazione dei due protagonisti, Rina Morelli e Paolo Stoppa, impostata con una formula molto suggestiva: trasfigurata, quasi irreale, quella della Morelli nel personaggio di Linda, che è in realtà l’unico spiraglio di sogno rimasto ancora aperto sulla vita di Willy Loman; veristica fino al particolare più insignificante, sanguigna, lacerata: quella di Paolo Stoppa nel personaggio di Willy Loman, che è invece la realtà veduta nelle sue più crude conseguenze. Questo duetto è certamente quello che Luchino Visconti ha più felicemente intuito ed è in gran parte una sua invenzione, viva, vera, ricca di contenuto poetico più di quanto non lo sia probabilmente nella stessa commedia del Miller.

Ma, per indugiare sia pure con felici intuizioni su questo e su altri temi particolari, la regia della Morte di un commesso viaggiatore ha ancor più perduto quella rapidità di ritmo che forse avrebbe potuto attenuare il senso dispersivo derivante alla commedia dalla sua carenza di unità lirica.

Gli episodi non di rado rimangono tali, circoscritti nel loro ambito, come scene di un quadro in effetti inesistente.

Abbiamo detto che la regia di Luchino Visconti è un esercizio di stile, potremmo aggiungere che è anche un esperimento: assai più degli altri recenti spettacoli dedicati al nuovo teatro americano, essa serve a dimostrare fino a qual punto la nuova generazione abbia superato il romanticismo del vecchio Eugene O’Neill.

Il vecchio Eugene O’Neill ha creato un’opera massiccia, costruita con un solido disegno, come una fortezza. I suoi figliuoli per ora hanno semplicemente incominciato a scomporla, ognuno per una sua strada. Tennessee Williams ha scelto la strada del crepuscolarismo, Clifford Odets quella del razionalismo psicologico, Sidney Kingsley quella della cronaca nuda e cruda, Arthur Miller quella della polemica sociale. (Ed è la polemica sulle possibilità di resistenza dell’istituto familiare più ancora della stessa polemica sulla struttura economica della società. Si ricordi a questo proposito l’altra commedia dello stesso autore già rappresentata in Italia, Tutti i miei figli).

Dove mai porteranno queste strade, non possiamo davvero saperlo; per adesso, non vanno molto lontano. La fortezza di Eugene O’Neill è sempre lì, a vista d’occhio. Tennessee Williams, Clifford Odets, Sidney Kingsley, Arthur Miller, John Howard Lawson, Paul Green e persino lo stesso William Saroyan, a teatro, sono ancora piccoli.

Giovanni Calendoli