Una commedia non solo scabrosa, ma anche noiosa e di cattivo gusto. Dopo essere stata permessa a Roma è stata vietata a Milano dalla magistratura: l’autore, Giovanni Testori, e gli impresari subiranno in aprile un processo che certo susciterà accese discussioni.
Milano, Marzo 1961
È davvero spiacevole che questa grossa battaglia, scatenata attorno all’Arialda, abbia per oggetto un dramma così modesto. Si discute tanto, si polemizza, si sfasciano compagnie, si chiudono teatri, si aprono processi, si parla di “situazione grottesca e caotica non degna di un Paese civile”, si invoca la Costituzione, e tutto questo succede per un copione noioso, di cattivo gusto, gonfio di retorica, sostanzialmente sbagliato. Se almeno si trattasse di un’opera geniale, magari rozza ma ricca di intuizioni illuminanti, coerentemente polemica, il teatro — che è sempre stato una palestra d’idee — potrebbe anche trarre vantaggio da tanto clamore. Ma qui non è proprio il caso. E questo, direi, è l’aspetto più sconsolante di tutta la faccenda.
I SEGRETI DI MILANO
Ancora giovane (è nato nel 1923 a Novate, alle porte di Milano); cresciuto in una famiglia, profondamente cattolica, di facoltosi industriali; laureato in lettere dopo aver frequentato un collegio di religiosi, il liceo Parini e l’Università Cattolica; studioso appassionato d’arte lombarda, e in particolare della pittura del ’600; Giovanni Testori pubblicò un primo romanzo breve, Il dio di Roserio, nel 1954, Era la storia schietta e patetica di un giovanotto della periferia milanese, Dante Pessina, che sogna ingenuamente la gloria di campione del pedale, la fotografia sulla Gazzetta, i fiori, la coppa e il bacio di una ragazza dopo la vittoria. Quel breve romanzo, quattro anni più tardi, comparve in testa a Il ponte della Ghisolfa, una serie di racconti ambientati in quella che è diventata ormai la terra d’elezione per la fantasia di Testori: la fascia di case, di prati, di povera gente che brulica attorno a Milano, ai margini con la grande pianura. Due anni fa, con La Gilda del Mac Mahon, Testori continuò il suo lungo monologo alla scoperta dei segreti di Milano. Nel frattempo, sempre traendo ispirazione dall’ambiente sordido e dolorante di un certo proletariato milanese, collaborò con Luchino Visconti alla sceneggiatura di Rocco e i suoì fratelli e diede al ”’Piccolo teatro” di Milano i quattro atti della Maria Brasca.
Esaminata così in blocco, la produzione di Giovanni Testori, già abbastanza cospicua, ha un suo significato, una sigla personalissima, e soprattutto sincerità e compattezza. Ma quanto i racconti sono ben costruiti e quasi sempre efficaci, altrettanto le due opere di teatro, la Maria Brasca e questa Arialda, appaiono povere, tecnicamente inesperte, estremamente monotone. Maria Brasca è soltanto un bozzetto drammatico, di facile realismo dialettale, in cui s’intravede la figurina d’una ragazza che anela con struggente cocciutaggine al matrimonio. Ridotta da quattro atti in uno o due, potrebbe anche avere una sua validità artistica; così com’è, invece, si disperde e si ripete in una serie di quadri che sminuzzano la vicenda senza svilupparla, L’Arialda è senza dubbio, come impianto drammatico, più ricca: la sua vicenda progredisce con ritmo più spedito, i personaggi (assai più numerosi) sono manovrati con maggiore esperienza del palcoscenico, le ambizioni di coralità e di socialità appaiono più evidenti. In compenso Maria Brasca, pur nella sua gracilità, era percorsa da un brivido di poesia, da una speranza di purificazione, da un’accorata malinconia che l’Arialda in realtà non possiede.
Quali sono, insomma, i pregi e i difetti di questa commentatissima Arialda? Condannarla senza appello, nella sua totalità, sarebbe ingiusto; solo per spirito di polemica, come è stato fatto in questi mesi, si può respingerla del tutto o esaltarla ad ogni costo. Che sia un’opera sincera, è certo. Ed è cer- to anche che in più d’un momento il suo dialogo è teatralmente efficace: lo scontro del primo tempo, ad esempio, fra il vedovo ortolano Amilcare e le due donne che ambiscono a sposarlo (la zitella Arialda e la vedova ”terrona” Gaetana) ha l’impronta d’uno scrittore autentico. Aggiungiamo pure che alcune annotazioni psicologiche, soprattutto per i personaggi di Arialda e del suo disgraziato fratello Eros, sono felici, oltre che scientificamente esatte. Ma, detto questo, bisogna avvertire subito che il copione, accanto agli scarsi elementi positivi, porta in sé alcuni errori sostanziali. Vediamoli, per semplicità, uno alla volta:
1) Il dramma (o “tragedia plebea”, come è stato definito) è fondamentalmente statico, e quindi noioso. Dopo i primi quadri, in cui vengono presentati a coppie, tra i prati compiacenti della periferia, i personaggi principali, la storia non ha più, psicologicamente, alcuno sviluppo. A metà del primo tempo sappiamo già tutto, siamo già stati informati ad usura circa l’ossessione erotica, il rancore indiscriminato, la perversione degli istinti da cui questa squallida periferia lombarda sarebbe dominata.
2) Ne deriva che l’opera è monocorde, prolissa, mantenuta su un tono esasperato, senza alternative. I personaggi, una ventina, dovrebbero rappresentare tutto un ambiente, una classe sociale, e offrire quindi varietà d’opinioni e d’interessi; ma non è così. Nonostante le apparenti diversità, si somigliano tutti, pensano sempre a quelle due o tre cose, non di più, e ripetono fino alla noia i medesimi gesti. Ora, è ammissibile che una piccolissima parte del proletariato milanese sia come Testori l’ha rappresentato, ma non è accettabile che sia tutto così.
3) La protagonista, Arialda, è un personaggio senza sorprese e incoerente. Non parla mai, urla; non discute, bestemmia. Una vita sventurata di zitellaggio l’ha intossicata, d’accordo, ma quando il dramma ha inizio Arialda è alle soglie del matrimonio tanto atteso; perché, almeno per un momento, questa svolta non la intenerisce, non frena la sua esaltazione? Uno spiraglio di fiducia nella vita, prima di precipitare nella nuova e più cocente delusione, avrebbe dato verità e umanità al suo personaggio. C’è, sì, il ricordo del fidanzato morto a perseguitarla, l’angoscia di una promessa di fedeltà che adesso, con le nozze, ella starebbe per tradire, Ma quale valore può avere questo ricordo (e quindi il rimorso) se Arialda ha per il morto solo parole di odio e di lugubre disprezzo?
POLEMICA SOCIALE
4) Corre, nei due tempi, un’accanita polemica sociale. Il furore contro i ricchi profittatori e corruttori è violento, ma troppo facile, troppo risaputo, troppo arbitrario. A teatro, su questo argomento, altri (a cominciare da Brecht) hanno detto infinitamente di più e meglio.
5) Nei suoi due tempi l’Arialda è disarmonica, Bozzettistico il primo, gonfio di ambizioni il secondo. Si comincia con il tono d’un dramma dialettale, preso a prestito dal più consueto realismo scenico, e si vorrebbe salire all’improvviso nel cielo della tragedia classica. È un salto troppo forte perché l’equilibrio dell’opera non ne risenta subito, e gravemente.
6) Dal principio alla fine il dramma è turbato e reso meschino da una corrente di cattivo gusto a volte insopportabile. E qui bisogna togliere di mezzo un grosso equivoco. Il fastidio che una gran parte degli spettatori ha provato di fronte all’Arialda non è derivato tanto dalle parole volgari e dagli atteggiamenti erotici dei personaggi, quanto dal pessimo gusto con cui le une e gli altri vengono presentati, Il teatro, dai classici greci e latini ad oggi, attraverso la grossolanità della commedia dell’arte, l’amoralità del Rinascimento, le infinite commedie realistiche e satiriche di tutti i secoli, su fino ai drammi americani e francesi d’oggi, tanto per citare qualche esempio a casaccio, ha sempre ospitato parole scurrili, battute volgari, situazioni peccaminose. Quante scene scabrose abbiamo veduto in palcoscenico anche in questi ultimi anni, da Tè e simpatia a Sesso debole, da Uno sguardo dal ponte a La pappa reale, da Un cappello pieno di pioggia a Il soldato Schweyck? Eppure le medesime parole, le stesse anomalie, che in queste opere sono state accettate, nell’Arialda suscitano il fastidio, l’insofferenza, perfino la collera. La colpa è del cattivo gusto dell’autore, della brutalità, ad esempio, con cui la sua Arialda inveisce contro il fidanzato ”marcione” che è morto in sanatorio e che ora, nei sogni, viene ad eccitarla con morbosa lascivia la notte. Qui non si tratta di ipocrisia pudibonda, di bigottismo, di falso moralismo, È questione di gusto, di dignità: nient’altro.
Questa è l’Arialda, una ”tragedia plebea” ambiziosa, ma povera, apparentemente varia eppure monotona; il suo linguaggio, che vorrebbe essere immediato e popolaresco, tradisce di continuo la derivazione letteraria e la retorica; la sua audacia sarà forse oscenità (con questa motivazione è stata sequestrata), ma è sicuramente cattivo gusto. Certo, con tutto il rispetto per Giovanni Testori, che resta a nostro avviso un ottimo narratore, non meritava il chiasso che le è stato fatto attorno, Il procuratore della repubblica di Milano, dottor Carmelo Spagnuolo, nella sua ordinanza di 1300 parole, tutte calibratissime e impegnate non solo sul piano del diritto ma anche su quello del giudizio estetico, le ha negato qualsiasi valore d’arte e ha dichiarato che, ”per turpitudine e trivialità, si rivela grandemente offensiva del comune sentimento del pudore”.
L’azione del magistrato milanese è nella legalità? Certo sì, nessuno ne dubita, l’Arialda merita la qualifica di opera oscena? Lo stabiliranno i giudici tra un paio di mesi, al processo. Ma, è stato obiettato, come opera d’arte, secondo l’articolo 529 del Codice penale, essa dovrebbe essere al di sopra dell’accusa. È vero; ma l’Arialda è opera d’arte? Nemmeno i critici, anche i più qualificati, si sono trovati d’accordo su questo punto. E se non hanno opinioni sicure loro, abituati ad esprimere giudizi per abito professionale e per sensibilità, com’è possibile che le abbiano tanto chiare e perentorie degli uomini di legge alieni, si presume, dai problemi estetici? Ma non basta. l’Arialda era stata esaminata tre volte dalla censura e, sia pure con un divieto per gli spettatori inferiori ai diciotto anni, era andata in scena a Roma per 53 repliche. Come può essere che uno spettacolo lecito a Roma sia osceno a Milano?
Gli interrogativi sono molti, e sconcertanti. Un critico comunista ha detto che il sequestro del dottor Spagnuolo, episodio unico nella storia secolare dell’unità d’Italia, è un attentato alla libertà di parola e d’opinione garantita dalla Costituzione. L’affermazione è di grosso effetto, ma pecca di superficialità. La Costituzione, infatti, riconosce il diritto alla libertà, ma a patto che questa non contrasti con il Codice. Ed è appunto in nome del Codice che il procuratore della repubblica si è mosso.
La verità è che, a parte ogni considerazione sull’opportunità d’un provvedimento così drastico e senza precedenti, il mondo teatrale, e in generale l’opinione pubblica, sono rimasti scossi e disorientati. La situazione del nostro teatro, già confusa e spesso insensata, ha avuto — se era mai possibile — un aggravamento. Ecco perché l’ex-sottosegretario allo spettacolo, onorevole Ariosto, ha invocato provvedimenti urgenti che liberino la scena da una condizione «grottesca e caotica non degna di un Paese civile». Gli organi amministrativi della censura avevano detto sì; un organo giudiziario milanese ha detto no. Sono stati questo conflitto, questa disparità, questa pericolosa confusione di idee a seminare l’allarme tra gli attori, gli esercenti, gli impresari, gli autori, In questo momento agiscono in Italia almeno due altre compagnie che stanno rappresentando, con il consenso della censura, opere non inferiori, quanto ad audacia, all’Arialda. Giungendo sulla piazza di Milano, si vedranno anch’esse sequestrati i copioni, saranno denunciati autori e registi?
UNA SAGGIA PROPOSTA
Fulminata dall’ordinanza di sequestro, la compagnia Morelli-Stoppa ha abbandonato Milano ed è tornata a Roma. Stoppa, allibito, ha difeso la sua carriera di attore coscienzioso, e. non certo di apostolo dell’oscenità; la Morelli era affranta e persino incapace di pronunciare una parola; tutti gli attori, con rassegnata amarezza, hanno rifatto in fretta i bagagli. Il teatro ”Nuovo”, uno dei pochissimi che era riuscito a conservare una certa continuità d’esercizio (il ”Lirico” è chiuso, il ’’Manzoni” procede a strappi), ha dovuto chiudere. I responsabili della compagnia, rimproverati per essere venuti a Milano con un solo spettacolo in repertorio, si sono difesi spiegando che una ”tegola” così repentina e senza rimedio, caduta sul loro capo per la prima volta nella storia del nostro teatro, non era prevedibile. Giustificazione valida solo in parte, La preparazione d’un secondo spettacolo almeno, in previsione d’un insuccesso o di un qualsiasi contrattempo, è abituale per le compagnie e dovrebbe entrare nella norma non fosse altro che per ragioni di prudenza.
Ma ogni recriminazione, ormai, è inutile. Dopo due mesi di vita avventurosa, ed economicamente non felicissima (a Roma, nonostante la grancassa pubblicitaria, non ha raggiunto le 700 mila lire per sera), l’Arialda ha chiuso bruscamente la sua stagione, La parola, adesso, spetta ai giudici. Ma c’è da sperare che l’episodio così increscioso, comunque lo si giudichi, serva almeno a qualcosa: cioè a far varare finalmente quella legge sul teatro che si attende da anni e a suggerire una serie di rimedi perché contrasti di giudizio così stridenti, conflitti di poteri così palesi, non debbano più verificarsi. Francesco Carnelutti, dall’alto del suo prestigio di giurista, ha proposto che, per scongiurare nuove eventuali disparità d’opinioni, venga creato un consiglio giudiziario con il compito specifico di autorizzare, con decisione inappellabile, la rappresentazione teatrale o cinematografica di un’opera. La proposta è semplice e saggia. Ma forse proprio per questo non sarà ascoltata.
Vittorio Buttafava