In attesa di Tosca: Idee di Jean Renoir
Da quando La grande illusion è stata presentata a Venezia sono passati quasi tre anni ma il nome di Jean Renoir, regista di film che il grosso pubblico non conosce perché sono apparsi solo alla Mostra veneziana o perché non hanno neppure varcato il confine (come la Marsigliese), ha trovato, tuttavia, in Italia il terreno propizio per crescere e acquistare il credito dovuto a registi molto più popolari di lui. Adesso aspettiamo la sua Bête humaine che davanti ai privilegiati spettatori del Lido ha fatto furore.
Jean Renoir è, come si sa, giunto da qualche settimana in Italia. Fra poco metterà mano alla lavorazione di Tosca, il film che la Scalera aveva in programma fin dal settembre ma che la guerra, mobilitando il protagonista Georges Flamant e il regista stesso, ambedue francesi, ha fatto rimandare.
— Ho potuto avere un anno di licenza perché sono stato gravemente ferito nell’altra guerra, — spiega Renoir. — Ed eccomi qua, ad assolvere il mio impegno italiano.
Per un anno, dunque, Renoir, starà a Roma. Ha già preso una bella casa dalle parti di Santo Stefano Rotondo. E’ già entrato nelle abitudini romane.
— E’ inteso che Tosca andrà in cantiere fra pochi giorni, ma ci vorrà forse un po’ di pazienza perché gli attori non sono ancora sottomano e, quindi, i costumi non sono ancora stati ordinati. Intanto do gli ultimi ritocchi alla sceneggiatura. Non si finirebbe mai di metterci le mani, in certi lavori. E nelle ore in cui sono libero vado… a spasso!
Sono forse il vento e il sole di questi giorni a cavallo tra l’inverno e la primavera che gli hanno arrossato il volto e scompigliati i capelli biondi, radi e sottili come quelli di un neonato. Ha gli occhi cerulei ben aperti, che rivelano uno stupore pur esso infantile.
— Roma è una città da amare fin dal primo giorno. Bisogna conoscerla, imparare a guardare i suoi monumenti e a respirare la, sua aria. E’ una città che modifica, che trasforma gli individui. Da principio sono rimasto cosi colpito del peso di questa vostra tradizione che ho dubitato di poter far qualche tosa di buono in questa atmosfera. Allora ho studiato, ho voluto vedere se artisti stranieri erano riusciti a creare qualcosa di bello in Italia, ad amalgamarsi con questa tradizione; poiché l’Italia è anzitutto un paese di costruttori e non si può dire di avere « fatto qualche cosa » se non si è « costruito » (costruire non vuoi sempre dire adoperare la calce e i mattoni), mi sono rallegrato vedendo che a Milano, a Pisa e perfino a Roma era ancora viva e ammirata l’opera di grandi costruttori stranieri. L’ospitale Italia concede, dunque, al forestiero il grande privilegio di poter lavorare senza essere « spaesato ». E mi son fatto forza.
— Qual’è il monumento che a Roma più vi ha colpito?
— Non saprei individuare un monumento o un’opera d’arte ma penso che dovrei subito parlarvi di San Pietro. Non ho paura di dire un’eresia confessando che, la prima volta che vi sono andato, ho provato un’impressione disastrosa. Quelle enormi lastre di marmo rosso mi scostavano; tutto mi pareva troppo bello per essere vero, quasi una colossale costruzione da pasticcere… Il giorno dopo ci sono dovuto tornare, attratto da una forza misteriosa; il giorno dopo ancora; e adesso ci vado quasi tutti i giorni, ne conosco ogni pietra, ogni frammento: tutto è vivo per me in quell’opera ciclopica, la più piccola voluta ha per me la sua ragione d’essere. Ne sono così sconvolto, ora, che arrivo magari a chiedermi se non siano più felici quei « turisti » i quali viaggiano con gli occhi bendati e non subiscono influenze di sorta…
Renoir non è uomo da entusiasmi facili, così come non è uomo da fermarsi su una idea preconcetta. Egli non ha aspettato lo scoppio della guerra per ricredersi sul bolscevismo, come invece hanno aspettato quasi tutti i francesi. Egli ha capito che cos’era il bolscevismo, e quali conseguenze andava incontro chi professava quella fede, un anno prima della maggior parte dei suoi compatrioti e allora ha aderito all’invito della casa italiana, e ha goduto a farsi influenzare l’animo da questo clima di benessere.
— Quale sarà l’influenza di questo clima spirituale sulla vostra arte? — gli chiediamo.
— E’ quello che mi domando anch’io. In quest’anno d’Italia realizzerò un grande film italiano; è questa la mia ferma intenzione.
— E Tosca?
Tosca è un film «in francese», cioè un film che avrei potuto girare in Francia, come in Italia, che nulla ha a che fare con questo paese. Ho in mente almeno altri sei film « in francese » da fare, avrei molto lavoro pronto se fossi a Parigi. Ma non è all’Italia che voglio dare film siffatti. Adesso aspetto di trovare una vicenda italiana sulla quale impiantare la mia nuova opera.
— Avete già letto molti soggetti?
— Sì, e di stupendi. Ma non ho ancora deciso.
— Avete tempo, in un anno, di dare altri due film oltre alla Tosca; e in attesa di realizzare il film che sognate, potrete darci anche qualche cos’altro.
— Può darsi. Intanto cerco, cerco dappertutto una vicenda semplice, quale me la potrebbe raccontare un operaio, un lavoratore della terra. Dovrei forse vivere qualche tempo a contatto con loro. Anche per La grande illusion, vedete, non sono partito da un soggetto scritto ma da una storia raccontata: è l’avventura di guerra vissuta da un mio amico, che adesso comanda la nostra aviazione da caccia. Egli me l’ha raccontata molte volte; siccome è un uomo semplice, non vi ha aggiunto nulla. Ho lasciato che ripetesse la sua storia perché mi piaceva ascoltarla, piana e schietta com’era. Lentamente la vicenda si è trasformata nella mia mente fino a diventare un film. Si vuol dare un significato complesso a questa mia opera, ma lo spunto è semplice, quasi popolare.
— Avete avvicinato operai italiani?
— Non ancora. Ma ho veduto i loro volti aperti, sinceri e me ne sono entusiasmato. L’altra mattina, al Centro Sperimentale, erano intorno al Duce, vibranti, giovanili; fanno massa, sono un blocco solo. Insisto a dire che non so capire come uno straniero riesca a lavorare in un paese che, come l’Italia, è tanto fedele alla sua tradizione. La tradizione è segnata sul viso di questi operai e, anzitutto, è segnata sul viso del Duce: egli è l’Italia. Non una goccia del suo sangue può essere venuta e da oltre queste Alpi, da oltre questi mari. Vedendolo, ho capito perché per gli italiani la parola del Duce è sinonimo di patria.
— Qual’è la categoria di lavoratori che più vi appassiona?
— Quella dei costruttori, dei muratori, dei marmisti. Appena arrivato a Roma ho chiesto di fare un film la cui azione avesse luogo a Carrara, tra le cave di marmo, e ma ho saputo che c’è già La fossa degli angeli.
— Avete veduto molti film italiani?
— Si, vado sempre al cinematografo. Tecnicamente trovo il cinematografo italiano allo stesso punto del cinematografo francese: voi avete una fotografia più limpida, più smagliante; noi in compenso abbiamo una maggiore conoscenza del sonoro, evitiamo di sincronizzare gli attori (ho veduto talvolta attori italiani i cui movimenti labiali non erano in sincronia con le parole che la loro presunta voce pronunciava); quindi siamo pari. A mio avviso, però, v’è in Italia una sovrabbondanza di film in costume, di vicende superate. I produttori dicono che il pubblico ama questi soggetti; io credo che un film veramente italiano lo manderebbe in visibilio e sono certo che avrete già qualche esempio del genere. Per essere italiani con occorre rievocare un episodio del Risorgimento o un’avventura del Rinascimento: l’Italia d’oggi è tanto ricca di spunti che può soddisfare la fantasia più sbrigliata.
— Qual’è il film o l’attore italiano che più vi ha soddisfatto?
Macario. E’ un attore inconfondibilmente italiano, della tradizione teatrale italiana, figlio della commedia dell’arte. Egli mi ha dato la sensazione che cercavo: vedere in Italia quello che si può vedere solo in Italia.
(Film, 10 febbraio 1940)