Grandi film illustrati: Ossessione 1943
Grandi film illustrati: Ossessione 1943

Giugno 1943. (…) Più tardi, verso le tre, appesantiti dal cibo e dai progetti, passeggiavamo lungo la strada a mare di quella cittadina dove si paga anche il sole, ma val la pena di pagarlo; e d’un tratto mi fermai davanti all’ingresso d’un cinematografo. Clara Calamai, dolente e spettinata, mi guardava, e aveva una puntina da disegno infissa a metà della guancia. Ossessione, era scritto sul manifesto: e, più sotto: “Oggi”.
Di lontano giunse la mia vita di prima, mi agguantò per il bavero, e mi scosse fin che dimenticai d’essere un soldato in permesso; il discinto cineasta risorgeva in me, mormorando parole rigorosamente tecniche.
— Vieni, — dissi allo sbalordito Lorenzini, trascinandolo alla cassa. Questa era sormontata da un carretto con su scritto: «Vietato ai minori di sedici anni»; il mio compagno lesse, guardo la cassiera polputa e disse:
— Non hanno torto, sarebbe sciupata per un ragazzino.
Non gli passava neppure per la fantasia che il cartello potesse riferirsi al film, invece che alla ragazza, e quando mi vide comprare i biglietti, m’afferrò per un braccio.
— Non vorrai mica andare lì dentro — squittì; — alle quattro loro ci aspettano.
«Loro»: non due ragazze, ma tutte le donne del mondo, quindi la donna. La donna che avevamo desiderato fino alla stanchezza.
— Entriamo soltanto per dare un’occhiata, — dissi subdolamente. — il tempo l’abbiamo.
Lorenzini mi segui, e considero ciò uno dei più luminosi gesti d’amicizia.
— Ma Dio ca t’maladissa, — mormorava instancabilmente, navigando fra le poltrone: — ca t’vegna n’azzident, brutt cancher.
Così imprecava, senza che io l’ascoltassi. Per mesi e mesi avevo avuto la curiosità di Ossessione, da quando avevo veduto la prima fotografia di lavorazione su Film. Ora volevo sapere se Visconti meritava tutta la pubblicità fattagli, se la Calamai aveva saputo svincolarsi dal ruolo di gatta d’Angora, se il torace di Girotti era aumentato. Volevo vedere il film, insomma, e all’inferno Lorenzini, e le due ragazze in attesa.
Il locale s’andava affollando; ebbi l’impressione che tutti gli abitanti della cittadina i quali avevano sedici anni e un giorno, si fossero dati convegno in quel cinema.
— Andomia? disse Lorenzini irrequieto, quando ebbe visto il Giornale Luce.
— Aspetta, voglio vedere Clara Calamai, è la più bella donna d’Italia.
L’argomento poteva servire, in quella contingenza. Lorenzini s’acquietò, e sorbimmo una quantità di titoli di testa che, ragionevolmente impiegata, sarebbe stata sufficiente per dieci film. Poi Girotti scese dall’autocarro, mostrò il petto, entrò nell’osteria, sempre esponendo chilometri quadrati di torace.
— Chi el, un lutadur, lu li? — domandò il mio superiore e compagno. Ma ammutolì subito.
«Presentazione della protagonista», pensò il distinto cineasta che era in me. Clara, fuori quadro, cantava una dimessa canzone d’amore; poi si vedevano le sue gambe, qualcosa sul genere delle ossessionanti gambe del Dottor Jeckill; e finalmente eccola, svilita dall’abito miserrimo e dalla pettinatura scomposta.
— Ela le la piò bela dona d’Italia? — domandò Lorenzini con voce dubitosa.
In quel momento capii che avevo avuto ragione di scommettere su Ossessione, di entrare in quel cinema e di trascinarvi il mio compagno. Se la folgorante bellezza di Clara poteva suscitare dubbi, molto era stato compiuto.
In silenzio grande, assistemmo alla scena cruda della prima parte. Sentivamo il desiderio di Girotti come se fosse nostro, ci avesse tormentato a lungo, con dita sottili, ma instancabili. E l’abbandono di Clara, quel suo corpo duttile e consistente, quel suo stanco concedersi, ci tolsero il fiato.
— Ma Dio ch’li maladissa, che robe, — mormorava Lorenzini, abituato dal suo dialetto a imprecare, specialmente quando ammira. Allora cercai di essere maligno.
— Sono le quattro e dieci, — dissi deliberatamente.
Immaginavo il balzo che Lorenzini avrebbe compiuto a quella rivelazione; invece non diede crollo, sebbene Girotti esponesse pertiche e pertiche di petto, torace, spalle, schiena e quant’altro un uomo può decentemente esporre. Con ciò resta assodato che la fantasia vince la realtà. Il mio caporale era un uomo con idee limitate e precise, con desideri più precisi ancora, e la possibilità di soddisfarli; e rimaneva là, seduto su una poltrona scricchiolante per vedere altri che soddisfacevano i propri desideri. Lorenzini, come me, come tutto il nostro pubblico, era abituato in massima parte all’idromele cinematografico caro ai nostri produttori: ora si trovava improvvisamente di fronte all’alcole vero, forte, perfettamente preparato, e ne provava contemporaneamente stupore e ammirazione.
Venne anche una scena brutta; Girotti che cammina scompostamente verso l’infinito, agitando il proprio animo e una valigia, mentre Clara non osa seguirlo. Forse in un altro film una scena simile sarebbe passata, ma in Ossessione no, era più che una sciocchezza, era una cattiveria verso un’opera bella. Il pubblico rise, e aveva ragione di ridere.
Ma passato quel momento, non vi fu più tempo di scegliere, il film prendeva allo stomaco; quella storia disperata e dimessa, l’accanimento di quell’amore senza speranza, avido e dolente; e il delitto, l’ossessione d’averlo compiuto, il terrore animale di perdere il complice dell’amore e dell’uccisione, sono pagine violente. È cosi è bello il concorso di canto fra dilettanti (oh «tampa lirica» di via Bogino!) la minuziosa verità della festa domenicale nell’osteria padana, il pugno di Girotti all’amico, gli schiaffi di Girotti all’amante. E quanta stanchezza in quel peccato triste. Sogguardavo Lorenzini, ogni tanto, perché m’interessavano più le sue reazioni che le mie. Ma egli seguiva la vicenda con la mia stessa fissità, e mormorava le sue pittoresche imprecazioni proprio nei punti in cui io, mentalmente, allineavo aggettivi competenti. Sì, può darsi che Luchino Visconti derivi dai registi francesi, ma come un grande romanziere deriva dal suo maestro di scuola.
Lo spettacolo durò più di due ore e mezza. Dopo il brutto, goffo pianto finale di Girotti, uscimmo. E la strada era affollata di gente, donne per la massima parte; ma né Lorenzini né io le guardavamo, nessuna meritava d’essere guardata da chi aveva visto Clara per centocinquanta minuti. Clara dimessa, sciatta, imbruttita; Clara che mangiava impugnando il cucchiaio, che si mostrava senza vergogna in un abituccio sempre uguale, in una sottoveste paesana. Clara che aveva rinunciato alla ricetta che l’ha resa celebre, uscendone singolarmente ingrandita. Clara che, mostrando il seno nella Cena delle beffe, era ancora oleografica; e qui, senza mostrar nulla di segreto, appariva tutta di carne, carne viva nel peccato e nel patimento; Clara tenuta un po’ in secondo piano da una regia banchettante con esagerato compiacimento sui muscoli di Girotti; ma che ha saputo farsi largo a gomitate, fino a campeggiare nel film, e a giustificarlo. Giustificarlo, perché, forse, con un’altra attrice, la vicenda sarebbe stata meno credibile, oltre che meno efficace.
Queste cose io raccontavo al mio amico e superiore Lorenzini Dino, perché la voglia di parlare era tanta; ma egli non seguiva i miei ragionamenti.
— Sta nott m’la insogni — disse d’un tratto.
E non un accenno all’appuntamento mancato.
Così noi, scalcinati militari di bassa forza, rendemmo a quel film, che farà gridare tutti i moralisti della penisola, un grande omaggio; perché, grazie a lui, tornammo alla nostra montagna casti come ne eravamo discesi; e le vie del Signore sono misteriose.
Adriano Baracco (Film 5 giugno 1943)