Roma, dicembre 1946. I « sabati » dell’Arlecchino dovrebbero essere veri specchi della Verità, confessioni pubbliche assolutamente medioevali, ed invece si convertono in grandi giochi di prestigio. Ogni pittore assicura di essere pigro, ogni scrittore solitario: Amerigo Bartoli ha vinto il premio della resistenza e Luchino Visconti, che rappresenta l’ideale romantico della giovinezza romana, viene continuamente discusso e con solennità condannato; eppure lo adorano, per un fascino byroniano e goetheniano e in fondo — anche leggermente dannunziano. Adorano i suoi capelli spettinati, le sue camicie aperte sul collo, i suoi impermeabili spiegazzati, la sua lustra casa gremita di statuette inglesi e mori veneziani, la sua leggenda di fasto e di indifferenza. Lo adorano perché è un Visconti e perché è un comunista. Perché adatta testi classici alle prodezze dei funamboli ed introduce i Casavecchi in Delitto e Castigo e annuncia una Dama dalle Camelie in collaborazione con Galdieri, e perché ha restituito provvisoriamente iridati incanti a Cocteau e perché rende accessibilissimo il melodramma inglese.

Ma tanti motivi di un entusiasmo abbastanza esaltato da accostarsi alla venerazione dei “ Jeune France” per Théophile Gautier, si uniscono, per i giovani intellettuali romani, ad un impegno di sprezzo e di diffidenza che sono anche loro istinto d’amore. Così gremiranno i teatri dove si rappresentano lavori diretti da Visconti (per la prima di Zoo di Vetro i biglietti furono esauriti tra le nove e le dieci del lunedì mattina, spettacolo fissato per il venerdì sera): ma inevitabilmente ne diranno malissimo, rifacendosi, con assoluta approvazione, a qualcosa di precedente. Diranno ogni volta che di Luchino si aspettavano qualcosa di più: ed in un certo senso è vero, Visconti stesso è sempre talmente fitto, talmente in buona fede, talmente sanguigno da far sperare doni quasi inverosimili, strenne inevitabilmente inferiori all’attesa.
Irene Brin
(Film Rivista, dicembre 1946)