PRIME CINEMATOGRAFICHE: VAGHE STELLE DELL’ORSA
Il mito greco di Elettra e Oreste interpretato in chiave decadente, con atmosfere morbose – Lo sfondo: una Volterra cemeteriale e antiquaria – L’interpretazione di Claudia Cardinale, Jean Sorel e Renzo Ricci
Firenze, 24 settembre 1965. Un film di Visconti può in parte deludere, ma è difficile che si sottragga a un cattivante taglio viscontiano. Siamo di fronte a un regista che si fa valere anche nei difetti. Diamo pure per scontato, e salvo poche eccezioni è stato il giudizio comune a Venezia, che Vaghe stelle dell’Orsa… sia inferiore alle opere migliori di Visconti, sia per ispirazione che per esecuzione (ma le due cose sono quasi sempre legate). Si resta però sempre in un terreno provvisto di singolarità e di fascino. Non fosse altro perché il regista mette allo scoperto un lato della sua personalità che ci aveva sempre lesinato nel cinema, o mostrato solo a sprazzi: il decadentismo compiaciuto, revivalistico, nel quale confluiscono ricordi di altre epoche, di altri climi.
È stato detto che si tratta di un film dannunziano. È vero, ma in senso lato, prendendo D’Annunzio come caso limite del decadentismo e del compiacimento estetizzante. Non come riferimento preciso. C’è però il culto delle atmosfere esasperate, protette da un calore di serra, tese più al passato che al presente. Un film che teme l’apertura dei vetri, il contatto con la società, lievitante in un humus artificiale. Dannunziano in un senso irreale e superomistico.
La vicenda, più che nascere da indicazioni attuali di costume, si ispira al mito greco dell’uccisione di Agamennone da parte di Egisto, dell’usurpazione del trono da parte dell’assassino, amante della vedova Clitennestra, e della complicità fra Elettra ed Oreste nel perseguire gli assassini. Visconti e i suoi sceneggiatori hanno però introdotto modifiche, facendo diventare incestuosi i rapporti tra i fratelli e sfumando la questione della morte del padre: è stato veramente ucciso dalla moglie e dal suo amante, o non piuttosto le accuse dei figli sono ingiustificate? Così la questione dell’assassinio rimane un fondale: in primo piano passa la passione singolare fra Elettra e Oreste, tesa oltre i limiti di un’umanità possibile.
I nomi, naturalmente, sono cambiati, e le situazioni. I tempi sono i nostri. Il padre non è stato ucciso direttamente ma, come israelita, denunziato ai nazisti (forse). L’azione si svolge nell’ambiente cemeteriale e vetusto di Volterra, città che sembra suggerire il non trascorrere del tempo, la perennità del passato, il ricorso delle epoche e la pochezza del presente. A Volterra in ventiquattr’ore i protagonisti del dramma si incontrano, i loro sentimenti si scaldano fino al diapason emotivo, alla fine Gianni-Oreste rifiutato da Sandra-Elettra si uccide. I tre quarti della vicenda si svolgono tra le consolles e gli alabastri di palazzo Inghirami (caro alla narrativa dannunziana) il resto sottoterra nella piscina romana oppure sull’orlo delle Balze. Poco è concesso alla Volterra moderna, vista solo di straforo. I personaggi contro i fondali antiquari o archeologici, recitano quasi come in teatro, in atteggiamenti stilizzati: Visconti li circonda di oggetti antichi, anche le persone sembrano fatte di alabastro e di letteratura. Fa da connettivo un gusto che rievoca motivi cari al decadentismo europeo internazionale al momento del suo apogeo: l’epoca, appunto, di D’Annunzio.
Nonostante i sentimenti esasperati messi in gioco, Vaghe stelle dell’Orsa... è uno spettacolo da vedere con distacco, col gusto di chi frequenta un’esposizione, poco provvisto di una sua tensione emotiva. L’altra opera viscontiana a cui fa pensare è Le notti bianche, appunto la più incerta e letteraria.
È un film che guarda all’indietro. Tutto il retroterra culturale di Visconti collezionista, uomo di gusto, amante di cavalli e di palazzi, il nobile che egli è, prende la mano all’artista o per lo meno lo condiziona. E c’è anche il regista di teatro incontentabile in fatto di scenografia, che non sbaglia un oggetto di epoca. Ma questo sovraccarico forza la vicenda, la sommerge, ne fa un pezzo da collezione anch’essa.
Sergio Frosali (tratto da La Nazione, 24 settembre 1965)