Roma, 16 marzo 1946

Antigone è la più bella regia di Luchino Visconti; quella dove l’istinto, la natura, il temperamento accesissimi di questo regista diventano più precisamente ragion critica e stile. Non solo; ma una ragion critica che non si lascia deviare da facili tentazioni di spettacolo, e uno stile che non patisce incrinature nel suo calzante, continuo aderire alla « personalità » del testo. Il quale; se ha un valore, lo ha proprio in un suo flusso elegiaco orizzontale e senza interruzioni; flebile, pudico e abbastanza letterario lirismo che si dipana in modi facili, sbrigativi che non sopporta gravame d’intenzioni filosofiche, di grossi significati morali, di complicazioni psicologiche. Dar troppa concretezza a personaggi e situazioni, qua dentro, avrebbe significato dimostrarne la finale inconsistenza; ché essi consistono di parole; e ciò sia detto senza offesa per il garbato poeta ch’è Anouilh, ché di parola consistono le favole e melanconiche allegorie di stati d’animo contemporanei che dobbiamo a scrittori assai vicini alla sua vena e, non a caso, lontani dal teatro: da Supervielle a Reverdy, da Sinisgalli a Lisi. Non parola vacua ed ornamentale, ma parola-melos, parola-discorso, allusione sui margini dell’aneddoto, parola che assorbe in sé ed esclude, facendosene esclusiva espressione, tutti quei motivi interiori che potrebbero tradursi in azione, in gioco di personaggi. Ed è vano tirare in ballo la parola che assorbe in sé ed esclude, facendosene esclusiva espressione, tutti quei motivi interiori che potrebbero tradursi in azione, in gioco di personaggi. Ed è vano tirare in ballo l’esistenzialismo per questa patetica esercitazione d’uno spirito delicato su un tema quasi convenzionale della poesia moderna, qual’è l’identificazione dello stato di grazia della creatura umana nella purità infantile, nel metafisico sospiro dell’innocenza. È ovvio che anche questo tema ha strette parentele con l’angoscia esistenzialistica — la quale ha una vitalità culturale proprio in quanto si rivolge a diffuse situazioni dell’animo contemporaneo, già prima arrivate alla luce della poesia.

Visconti s’è mantenuto fedele a questa linea di tiepida e vibrante letteratura; nulla ha forzato, nulla ha mascherato; e tutto lo spettacolo è andato avanti liscio nell’atmosfera del « gusto ». E senza ironia — il che non è l’ultimo merito di questa fatica di regista, così come non è l’ultimo merito del testo. Dove l’esistenzialismo entra in ballo dichiaratamente è, si sa, in « Porte chiuse » di Sartre — e qui il discorso si farebbe più complesso del lecito. Basterà accennare all’appartenenza di Sartre non all’esistenzialismo propriamente metallico (che è poi quello dei tedeschi) dal quale ogni dato che non sia solitudine trascendenza ascesi è rigorosamente escluso; ma a quell’esistenzialismo (francese e anche italiano) che ha tono piuttosto pragmatistico e moralizzante, e nel quale si può ravvisare soprattutto una smania di concreto, un ponte di passaggio verso nuove posizioni realistiche, una immersione nell’azione e nel divenire che ancora esclude la storia, ma pure è tutta storia, « impurità », spasimo sociale: momento contraddittorio e drammatico della crisi dello spirito moderno, il cui senso e la cui possibilità poetica stanno appunto nel mostrarcela, la crisi, allo stato fluido, nella sua stessa massima confusione. Tutte le « soluzioni » che si volesse inserirvi vanno a tutt’oggi ottenute con un « salto » sentimentale, che scardina di colpo ogni premessa filosofica — così com’è stato per Sartre e Camus l’interesse politico negli anni della guerra.

Così, le porte chiuse di questa posizione sono apribili, solo alla poesia, non al pensiero — vale a dire alla sincerità di una denuncia, al coraggio con cui mettere in piazza le nere contraddizioni; e questo non manca in Sartre, e dà poesia a un grado di linguaggio molto acceso — anche se uno scambio tra coraggio psicologico e coraggio morale, cioè in definitiva tra spudoratezza ed essenzialità, sia sempre lì, presente, come una minaccia, come una spia aperta sul definitivo intellettualismo della posizione. E la forza vera dell’opera è l’ultima, il ricordarci che il problema per noi, ormai, non è tanto di sapere, quanto di essere.

Visconti ha risolto radicalmente: scartando per intero il côté filosofico. Va da sé che contraddizioni e trabocchetti del testo sono, così, rimasti più scoperti che mai. Ma il vigore del dramma ne ha guadagnato: sangue e sudore di tutti i giorni. Degli attori e del pubblico dirò la prossima volta.
Ruggero Jacobbi
(Film d’oggi)

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