Un Visconti per le grandi platee

Fasto, lusso ed eleganza nell’opera postuma del regista milanese – La materia del «feuilleton» di D’Annunzio trasfigurata in tragedia e in lezione morale – Talento drammatico di Giannini, bella presenza della Antonelli

La celebrazione (che è cominciata ieri sera alle 22.30 e della quale riferiremo dunque domani) prevedeva l’Adagio della Quinta sinfonia di Mahler in accompagnamento a tra minuti di proiezione di fotografie del regista, brevi discorsi commemorativi dei suoi protagonisti Burt Lancaster, Helmut Berger, Giancarlo Giannini, e trenta secondi di riflessioni sulla morte pronunciate da Visconti, registrate durante una delle sue ultime interviste.

Per l’occasione erano a Cannes Mastroianni, la Cardinale, George Wilson, gli interpreti, sceneggiatori e produttori del film, il nipote del regista Prando Visconti.

« Non ho nessuna paura di morire. È meglio andare a vedere che cosa c’è di là; è come andare al cinema ». Le parole che Luchino Visconti disse il giorno del suo ultimo compleanno sono il rintocco ironico ed elegante dell’Innocente, il film postumo presentato ieri a Cannes in anteprima mondiale, « libera riduzione » del romanzo pubblicato a puntate da D’Annunzio sul Corriere di Napoli nel 1891-’92. Uno dei migliori di D’Annunzio benché lo spunto fosse forse plagiato da una novella di Maupassant, dove la finezza dell’introspezione psicologica preannuncia Proust e la mistica della sensualità s’intreccia a echi tolstoiani, il ricordo di Nietzsche alle crudezze del verismo. « È un romanzo d’un’acutezza straziante » scriveva D’Annunzio a Barbara Leoni, l’amante che con le sue molte piccole grazie gli aveva ispirato qualche tratto di Giuliana, la protagonista femminile. E quella volta non s’ingannò. Se oggi L’innocente si può rileggere con frutto è anche perché nella perversità del personaggio centrale, nel suo cinismo, nel sarcasmo interiore che lo accompagna, sono racchiusi  molti connotati di una società che s’avviava alla distruzione del senso morale e al suicidio, serbando tuttavia una fortissima capacità di ferirsi e giudicarsi.

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Sceneggiando il film con Suso Cecchi D’Amico ed Enrico Medioli, Visconti ha variato in più luoghi il suo modello letterario. Fra l’altro ha abolito le due precedenti figliolette di Tullio e Giuliana, ha trasformato il fratello di Tullio (per D’Annunzio un esempio di serene virtù virili) in un mondano, ha sorvolato sulla massima preoccupazione di Tullio, che sua madre non uscisse comunque turbata dal dramma, ha cancellato la figura del vecchio contadino che nonostante le traversie subite serbava un sorriso per tutti. D’altro canto ha dato largo spazio alla figura di Teresa Raffo, nel romanzo appena ricordata, ha descritto l’incontro tra Giuliana e l’amante, le ha dato notizia della sua morte attraverso il giornale, ha creato ambienti (sale da concerto, scuole di scherma, sale d’asta) in cui l’aria del tempo circolasse più ricca. Sopratutto, spingendo Tullio al suicidio, ha moralizzato il finale, che D’Annunzio aveva previsto come prologo al romanzo, in cui l’uomo confessava il delitto a sollievo di un lungo rimorso. « Oggi — disse Visconti per giustificare il nuovo epilogo — il pubblico non tollererebbe che l’assassinio d’un bambino restasse impunito ».
Giovanni Grazzini
(Corriere della Sera, 16 maggio 1976)