I suoi film più importanti da La terra trema a Senso, da Rocco e i suoi fratelli, fino allo Gattopardo hanno un ritmo narrativo che risente del romanzo: Vaghe stelle dell’Orsa… sembra invece un’opera più completa e concisa e improntata a una maggiore semplicità strutturale. Forse per il suo intento di realizzare una tragedia moderna?

— È vero, c’è un ritmo diverso, ma non tanto perché ho pensato a una tragedia moderna, quanto perché questa vicenda ha quasi il respiro di una novella; in un certo senso la si può collegare a Le notti bianche, in quanto entrambi racconti. È logico usare un ritmo diverso a seconda dell’impostazione della vicenda: anche i romanzi di Thomas Mann hanno un ritmo ben lontano da quello dei suoi racconti e la stessa cosa si nota in Maupassant. Vaghe stelle dell’Orsa… ha anche, rispetto agli altri miei film, una maggiore semplicità narrativa: è rispettata quasi completamente l’unità aristotelica di tempo e di luogo. Inoltre non ci sono mai interventi miei, non esiste il personaggio che mi rappresenta, come Ciro in Rocco e i suoi fratelli, né vi è una partecipazione in senso politico, come in Senso: io mi limito a guardare la vicenda in modo obiettivo e distaccato. Non esiste da parte mia una condanna: è come quando si solleva una pietra e sotto si vedono degli insetti: li guardiamo muoversi e subito rimettiamo la pietra al suo posto.

Che cosa le ha fatto scegliere il tema dell’incesto? E qual è la relazione con l’incesto rappresentato in Peccato che sia una sgualdrina di Ford da lei inscenato a Parigi?

— Ho scelto questo tema perché l’incesto è l’ultimo tabù della società contemporanea; tuttavia non è stata una scelta programmatica: è un motivo che era nell’aria e che è legato alla vicenda di Elettra; anche il Sartre, ne I sequestrati di Altona. L’incesto di Vaghe stelle dell’Orsa… nasce proprio dall’ambiente in cui i due ragazzi crescono, è un mezzo esasperato e drammatico per unirsi contro la disgregazione della famiglia e la solitudine. Questo disfarsi è sentito soprattutto da Gianni, il fratello: è lui infatti a proporre a Sandra una vita in comune nella vecchia casa come ultimo appiglio; e l’ultimo gesto di Gianni che va a morire nel letto della madre quasi a voler rientrare nel suo grembo, vuole significare il tentativo estremo di ricostruire il nucleo familiare. La differenza con Peccato che sia una sgualdrina è soprattutto nella diversa violenza: un autore elisabettiano arriva naturalmente all’esasperazione; noi non possiamo spingerci fin là.

Il motivo della decadenza della famiglia in questo film, come negli altri suoi precedenti, il tema centrale: tuttavia sembra che qui il contesto storico sia più staccato, anche se riguarda una delle massime tragedie di tutti i tempi. Quali sono le ragioni di questo distacco e dell’interesse portato soprattutto verso significati più privati e più intimi?

— La tragedia degli ebrei rimane staccata; è data come un fatto scontato e basta. Altrimenti avrei fatto un romanzo e non un racconto cinematografico. Non è vero però che non esiste l’ambiente e lo sfondo sociale; non ho rappresentato la gente che passeggia per le strade, che lavora negli uffici o beve il caffè, ma la città non è questa; la città che incombe sui protagonisti è nelle voci, nella calunnia che ha gettato un’ombra sulla loro adolescenza. E non sono d’accordo con quanti hanno definito intimista questa storia: io lavoro nella convinzione che per capire la società contemporanea e i suoi problemi e cercare di trovarne una soluzione non convenzionale, uno dei mezzi, e non il meno importante, sia quello di studiare l’animo di certi suoi personaggi rappresentativi, comunque collocati e angolati. Vaghe stelle dell’Orsa… parte alla ricerca di piccole verità e ne scatena molte altre.

Quali sono le fonti letterarie di Vaghe stelle dell’Orsa… oltre a Sofocle e a Ford?

— Non mi sembra sia esatto definirle fonti, mentre è giusto parlare di reminiscenze letterarie: è un fatto naturale che in ogni opera di ogni regista che non sia del tutto incolto confluiscono diversi ricordi, diverse letture. Nel caso di Vaghe stelle dell’Orsa… si può parlare anche di Thomas Mann, autore che io amo molto e che conosco discretamente; si possono trovare anche vaghe reminiscenze proustiane. E con questo? Non ho mai negato che l’idea del personaggio di Rocco avesse qualche parentela con L’idiota, anche se poi Rocco non è affatto il principe Myskin. È la dimostrazione che in tutto quello che un regista fa non c’è niente di gratuito.

Ho notato nel suo film parecchie novità stilistiche, soprattutto un maggior uso degli stacchi.

— In tutte le scene in cui appare la madre ho usato molti stacchi; non era previsto dalla sceneggiatura: mi è venuto naturale mentre giravo. Mi è sembrato necessario per dare una dimensione di ricordo, come se l’incontro con la madre appartenesse già alla coscienza di Sandra e su di essa incombesse, mescolandosi a un senso di colpa. Volevo rendere proprio queste sensazioni: pensare alle cose della nostra adolescenza è una violenza che facciamo a noi stessi, è un doloroso scavare dentro di noi. E ho scelto volutamente un tipo di attrice dannunziano, Marie Bell, così Comédie Française, pur rinunciando al melodramma: perché è un personaggio che vive in una dimensione diversa dagli altri, è già collocato in un altro tempo. Non è la madre, è l’immagine della madre come la ricorda Sandra. Anch’io se penso a mia madre mi trovo di fronte a una immagine simile.

Come mai è ricorso così spesso all’uso dello zoom?

— Ho usato spesso lo zoom per la frequente necessità di un avvicinamento immediato. Ma soprattutto ci tengo a far notare di aver applicato più spesso lo zoom in modo abbastanza inedito, all’indietro, con la funzione di dare una dimensione precisa al dettaglio del primo piano. Lo zoom è un mezzo importante, ma bisogna saperlo sfruttare bene, come la punteggiatura; troppo spesso lo si è visto usare a caso, più che altro per pigrizia, anche da registi d’eccezione: Rossellini, per non far nomi.

Come mai ha fatto riprendere a Claudia Cardinale certi atteggiamenti della Livia Serpieri di Senso? Con questo ha voluto stabilire un rapporto tra personaggi dei due film?

— No, non ho pensato in particolare a stabilire un rapporto tra i due film, né mi sono accorto di far ripetere a Claudia gli atteggiamenti di Alida Valli: penso si tratti di atteggiamenti comuni a tutte le attrici che hanno lavorato con lo stesso regista; nello stesso modo direi a maggior ragione che si possono ritrovare nella Cardinale di questo film certe espressioni della Callas.

Perché preferisce lavorare con attori stranieri?

— Non mi pare sia vero: qualche volta ho dovuto preferirli per ragioni contingenti, ma anzi, il problema di una lingua diversa, con le complicazioni del doppiaggio, mi esaspera. Il mio prossimo film, Lo straniero, dal romanzo di Camus, lo girerò tutto in algerino.

C’è una continuità, giustificata da una tematica comune tra Vaghe stelle dell’Orsa… e la regìa de Il giardino dei ciliegi che si accinge a preparare per lo Stabile di Roma?

— C’è sempre in comune il tema della decadenza familiare, ma è espresso in termini molto diversi: la vicenda del mio film è una tragedia: Il giardino dei ciliegi non lo è affatto, anche se non c’è persona, nel mondo teatrale, che non si ostini a crederlo: è proprio qui che tutti i registi e gli interpreti hanno sbagliato finora e continuano a sbagliare. Perfino Stanislavskij in questo non ha capito Cechov. Io vorrei invece mantenermi fedele alle indicazioni date appunto dall’autore al suo primo regista nelle sue lettere. Specialmente l’ultimo atto viene in genere interpretato in modo addirittura lacrimoso mentre si tratta in realtà di un vaudeville: tutti sono felicissimi di partire, i preparativi si svolgono in una atmosfera gioiosa leggera e immemore, tant’è vero che il vecchio servo First viene dimenticato in casa come non potrebbe avvenire se la tristezza incombesse su tutti.

In genere i critici tendono a considerare due Visconti, un Visconti uomo di teatro e un Visconti uomo di cinema: esiste un rapporto diretto tra le due sue attività?

— Io non credo che le mie due attività, quella teatrale e quella cinematografica, rappresentino due fatti diversi, due momenti della mia vita: mi pare anzi di condurre un discorso unitario sul palcoscenico e sullo schermo, un discorso che non ha soluzione di continuità.
(dall’intervista di a cura di Marisa Rusconi in Sipario, ottobre 1965)