Accentuato in Vaghe stelle dell’Orsa il freddo intellettualismo e il decadente romanticismo del vincitore del Leone d’Oro

24 ottobre 1965.

Assegnando il Leone d’oro a Vaghe stelle dell’Orsa…, la giuria dell’ultimo festival veneziano ha finito, suo malgrado, per rendere a Luchino Visconti un cattivo servizio. Nella motivazione che accompagnava l’ambito riconoscimento si diceva che il Leone d’oro intendeva coronare, oltre tutto, l’intero corpus di opere di un maestro del cinema che, come tutti sanno, a Venezia aveva sempre conosciuto più mortificazioni che autentici allori. Ma ci si può chiedere se il modo migliore per rendere tardivamente giustizia ad un autore immeritatamente bistrattato fosse proprio quello di premiare una delle opere meno valide e meno significative di tutta la sua pur prestigiosa carriera.

Che Visconti sia destinato a figurare come uno dei capifila della migliore stagione del cinema italiano non dovrebbe essere messo in dubbio da nessuno. Neppure da coloro (e sono probabilmente molti) che per Visconti provano più ammirazione che entusiasmo. È difficile infatti lasciarsi prendere, nei confronti di Visconti, da quell’immediato trasporto che nasce spontaneo soltanto in presenza del genio, di quella freschezza di contenuti e di quella souplesse espressiva che caratterizzano l’opera di chi si trova naturalmente immerso nella corrente del suo tempo e ne esprime per intima consonanza gli umori più vitali. L’opera di Visconti, invece, anche quando l’esito sia in definitiva felice, suscita sempre l’impressione di una ruminata fatica, conserva spesso assai visibili i segni dello sforzo che l’autore deve compiere ogni volta per comporre in una sintesi convinta e convincente gli elementi contrastanti della sua personalità culturale ed artistica, divisa fra un’invincibile propensione verso il passato e la volontà di un impegno presente, fra le tentazioni di un prezioso estetismo figurativo, di una sentimentalità melodrammatica, di moduli narrativi e spettacolari ottocenteschi e l’ambizione di pervenire a un genuino linguaggio cinematografico.

I meriti del regista

Più che alle impressioni dello spettatore istintivo, che rischierebbe semmai di lasciarsi sorprendere dagli aspetti più caduchi dell’opera viscontiniana, i meriti del regista sono dunque affidati alla memoria dello spettatore critico e culturalmente avveduto che ha saputo cogliere, di volta in volta, la violenta carica di rottura che Ossessione è riuscito ad immettere in un particolare momento del cinema italiano che, nella migliore delle ipotesi, cercava di nobilitarsi nel calligrafismo, il partecipe risentimento nei confronti di una realtà sociale indegna che animava la bellezza arcaica, apparentemente fredda e gratuita, de La terra trema, i generosi tentativi, in gran parte riusciti, di storicizzare il Risorgimento in Senso e di passare, in termini moderni e schiettamente cinematografici, dalla « novella » al « romanzo » in Rocco e i suoi fratelli. Ma nessuna intelligenza critica, per quanto volonterosa, potrà riscattare Vaghe stelle dell’Orsa… dal limbo delle opere minori di Visconti, quel limbo in cui si è soliti relegare Le notti bianche e Il Gattopardo, nonostante la vitalità stilistica del primo e i brani da antologia che si possono rinvenire nel secondo.

Pur avendo rinunciato, come gli era prima capitato soltanto in Bellissima, ad appoggiarsi ad un testo precostituito, Visconti ha finito per darci con Vaghe stelle dell’Orsa il suo film più letterario, e questa volta il termine va inteso nei suoi aspetti meno positivi. I suoi personaggi, minati da passioni torbide in cui la violenza devastatrice che squassava gli eroi dell’Orestiade viene riesumata in termini esplicitamente freudiani, divengono i protagonisti improbabili di una vicenda esasperata, immersa in una atmosfera decadente che, nelle sue tonalità vagamente dannunziane, risulta anacronistica, senza che il richiamo ai campi di concentramento riesca in qualche modo ad attualizzarla. L’inconsistenza dei personaggi e della vicenda è denunciata chiaramente dalla qualità della recitazione. Visconti, che ha regalato alla scena italiana più di un attore di prima grandezza e che ne La terra trema aveva saputo imporre ad attori improvvisati, scelti fra i pescatori di Aci Trezza, un rigore e un’intensità espressiva ammirevoli, non è riuscito questa volta ad ottenere da Claudia Cardinale e da Jean Sorel più che un corretto mestiere. L’interprete più convincente del film è, in definitiva, Renzo Ricci. Se si tiene presente che si tratta di un attore che riesce ad esprimere qualcosa solo nella misura in cui è sorretto da una corposa « finzione » scenica, si può vedere in tale circostanza un’ulteriore riprova della qualità spuria della ispirazione da cui il regista ha preso le mosse per il suo ultimo film.

Le insidie di una ossessione

In definitiva, l’aver rinunciato, una volta tanto, a quell’esibita professione di fede nell’avvenire della classe proletaria che appariva spesso nei film precedenti schematica e forzosa, è servito poco a Visconti. Gli ha consentito soltanto di abbandonarsi senza remore alle sue più tipiche ossessioni di intellettuale di formazione tardo-romantica che, mentre intona ancora una volta il requiem su una classe sociale consunta dalla corruzione e condannata dalla storia, lascia intuire chiaramente di non essere mai riuscito a sottrarsi del tutto al fascino insidioso della morte e della decadenza, che nel film trovano la loro espressione più suggestiva nelle immagini fosche di una Volterra cimiteriale. La rappresentazione di un mondo così remoto e sostanzialmente inautentico dice ben poco, nel suo complesso, allo spettatore di oggi, al quale rimane soltanto la speranza di nuove prove, veramente degne del Visconti migliore.
Mario Arosio
(La discussione)