Interessato come sono ai motivi profondi che turbano e rendono inquieta, ansiosa del nuovo, l’esistenza degli italiani, ho sempre visto nella questione meridionale una delle fonti principali della mia ispirazione. Devo precisare che in un primo tempo mi sono accostato a questa questione, posso dire anzi di averla scoperta, per una via puramente letteraria: i romanzi di Verga. Ciò accadeva nel 1940-41, mentre preparavo Ossessione. La sola letteratura narrativa alla quale, nel quadro del romanzo italiano, sentivo di potermi riaccostare dopo le letture giovanili, nel momento in cui col mio primo film affrontavo, sia pure entro i limiti imposti dal fascismo, un tema contemporaneo della vita italiana, era quella di Mastro Don Gesualdo e dei Malavoglia. Devo dire che, fin d’allora, maturai il progetto di fare un film da questo romanzo. Poi venne la guerra, con la guerra la Resistenza e con la Resistenza la scoperta, per un intellettuale della mia formazione, di tutti i problemi di struttura sociale oltre che di orientamento culturale, spirituale e morale.

Le differenze, le contraddizioni, i conflitti tra nord e sud cominciarono ad appassionarmi al di là del fascino esercitato su di me, come settentrionale, dal “mistero” del Mezzogiorno e delle isole, ancora ai miei occhi assai simili alle terre sconosciute che scoprirono i Mille di Garibaldi. Vittorini aveva suonato un buon allarme con le sue “conversazioni”. La chiave mitica in cui fino a quel momento avevo gustato Verga, non mi fu più sufficiente. Sentii impellente il bisogno di scoprire quali fossero le basi storiche, economiche e sociali, sulle quali era cresciuto il dramma meridionale e fu soprattutto con la lettura illuminante di Gramsci che mi fu consentito il possesso d’una verità che attende ancora d’essere decisamente affrontata e risolta.

Gramsci non soltanto mi persuase per la acutezza delle sue analisi storico-politiche che mi spiegavano fino in fondo le ragioni, il carattere del Mezzogiorno come grande disgregazione sociale e come mercato di sfruttamento (di tipo coloniale) da parte della classe dirigente del nord, ma perché a differenza di altri importanti autori meridionalisti, mi dava l’indicazione pratica, realistica, di azione per il superamento della questione meridionale come questione centrale della unità del nostro Paese: l’alleanza degli operai del nord con i contadini del sud, per spezzare la cappa di piombo del blocco agrario-industriale. Mi illuminò inoltre, Gramsci, sulla funzione particolare, insostituibile degli intellettuali meridionali per la causa del progresso, una volta che fossero stati capaci di sottrarsi al servilismo del feudo e al mito della burocrazia statale.

La bontà dello schema gramsciano ha trovato conferma nelle lotte del dopoguerra. E, malgrado le grandi trasformazioni avvenute nel Mezzogiorno e in Sicilia sulla base dei movimenti contadini per la riforma agraria, per l’autonomia e per la industrializzazione, sembra a me che la indicazione del grande combattente antifascista sia rimasta insuperata. Mi si potrà chiedere perché nei due miei film di ispirazione meridionale io mi sia addentrato in drammi essenzialmente psicologici, sulla linea costante della rappresentazione del tema verghiano del fallimento, dei “vinti” insomma. Cercherò di rispondere a questa osservazione.

Un film nasce da una condizione generale di cultura. Non potevo partire, volendomi accostare alla tematica meridionale, che dal più alto livello artistico raggiunto sulla base di tale contenuto: da Verga. A ben guardare, però, anche nella Terra trema io ho cercato di mettere a fuoco, come fonte e ragione di tutto lo svolgimento drammatico, un conflitto economico.

La chiave di volta degli stati d’animo, delle psicologie e dei conflitti, è dunque per me prevalentemente sociale, anche se le conclusioni a cui giungo sono soltanto umane e riguardano concretamente gli individui singoli. Il lievito, però, il sangue che scorre nella storia è intriso di passione civile, di problematica sociale.

E così Rocco. La questione dei rapporti tra fratelli e tra figli e madre non mi ha certo interessato meno di quella che una simile famiglia provenisse dal Sud, fosse una famiglia meridionale. Operando questa scelta, non mi sono limitato però, alla ricerca di un materiale umano particolarmente suggestivo, ma ho consapevolmente deliberato di tornare sul problema del rapporto tra Nord e Sud, così come può tornarvi un artista il quale voglia, per così dire, non soltanto commuovere ma invitare al ragionamento.

Si rifletta a questo: in un momento in cui l’opinione ufficiale che si tende ad accreditare è quella di un Mezzogiorno e di una Sicilia e di una Sardegna trasformati dalla presenza d’un maggior numero di strade asfaltate, di fabbriche, di terre distribuite, di autonomie amministrative assicurate, io ho voluto ascoltare la voce più profonda che viene dalla realtà meridionale: vale a dire quella d’una umanità e d’una civiltà che mentre non hanno avuto che briciole del grande festino del cosiddetto miracolo italiano, attendono ancora di uscire dal chiuso di un isolamento morale e spirituale che è tuttora fondato sul pregiudizio tipicamente italiano che tiene il Mezzogiorno in condizioni di inferiorità rispetto al resto della nazione.

Forse ho forzato questo tema in modo energico e persino violento, ma nessuno potrà rimproverarmi di averlo forzato in modo arbitrario e propagandistico. Mi potrei avvalere del confronto della cronaca che registra ogni giorno l’odissea dei lavoratori meridionali che vanno al Nord in cerca di lavoro e di fortuna.

Ma per quanto mi sia facile affermare che la storia di Rocco e i suoi fratelli potrebbe benissimo figurare in una di quelle notizie di cronaca, io desidero rivendicare il carattere di tipicità. Nella particolarità del tutto fantastica dei mie personaggi e della vicenda, io credo di aver posto un problema morale e ideale che è tipico del momento storico in cui viviamo e che è tipico dello stato d’animo aperto, da un lato, alla speranza e alla volontà di rinascita dei meridionali e, dall’altro lato, continuamente respinto, per la insufficienza dei rimedi, verso la disperazione o verso soluzioni del tutto parziali come quella dell’inserimento individuale, di ogni singolo meridionale in un modo di vita impostogli dall’esterno. In questo quadro ho colorato la mia vicenda che, come è noto, arriva fino al delitto, centrando un aspetto del carattere meridionale che mi pare di grande importanza: il sentimento, la legge, e il tabù dell’onore.

Rispondo alla seconda questione. Il tema della sconfitta, della irrisione, da parte della società, dei più generosi impulsi individuali, è un tema moderno quant’altri mai. Vi sono tuttavia almeno due modi di trattarlo. Vi è un modo estetico e compiaciuto che io non esito a definire asociale, anzi antisociale. V’è un modo, invece, che esamina le condizioni della sconfitta nel quadro delle difficoltà imposte dall’ordine costituito e che tanto più si arricchisce di speranza e di energia, quanto più fa emergere dalla rappresentazione artistica il volto reale dell’ostacolo e il rovescio luminoso di una diversa prospettiva. Verga arrestava il suo processo inventivo e analitico alla prima fase di questo metodo. Il mio tentativo è stato quello di estrarre dalle radici stesse del metodo verghiano, le ragioni prime del dramma e di presentare al culmine dello sfacelo (nella Terra trema: il dissesto economico della famiglia Valastro; in Rocco: la frana morale nel momento di maggiore assestamento economico) un personaggio che chiaramente, quasi didascalicamente (non ho paura della parola) mettesse in chiaro. Qui, in Rocco non a caso questo personaggio è Ciro, il fratello divenuto operaio, che non soltanto ha dimostrato una capacità non romantica, ma effimera di inserirsi nella vita, ma che ha acquistato coscienza di diversi doveri discendenti da diversi diritti.

Tutto sommato (e devo dire: senza quasi accorgermene), il finale di Rocco è riuscito un finale simbolico, direi emblematico delle mie convinzioni meridionaliste: il fratello operaio parla col più piccolo della famiglia d’una visione futura del suo Paese che raffigura quella idealmente unitaria del pensiero di Antonio Gramsci.

Come si vede sono arrivato a conclusioni sociali, e persino politiche avendo percorso durante tutto il mio film soltanto la strada dell’indagine psicologica e della ricostruzione fedele di un dramma umano.

Pessimismo il mio? Esasperazione e forzatura polemica di tutti i conflitti?

Pessimismo, no. Perché il mio pessimismo è soltanto quello della intelligenza, mai quello della volontà. Quanto più l’intelligenza si serve del pessimismo per scavare fino in fondo le verità della vita, tanto più la volontà si arma, a mio avviso di carica ottimistica, rivoluzionaria.

Esasperazione dei confitti? Ma questo è il compito dell’arte. L’essenziale è che i conflitti siano reali. Io credo perciò di aver dato con Rocco non un quadro di parte, ma un quadro sul quale tutti, purché animati di buona volontà, possono convenire: nel condannare ciò che merita condanna e nell’assumere quelle speranze, quelle aspirazioni cui nessun uomo libero può davvero rifiutarsi.
Luchino Visconti
(schermi, dicembre 1960)