Palermo, marzo 1963.

Mare sanguigno e pioggia rada, rabbiosa, a frustate. Il conte è arrivato con la nave, non viaggia con gli aeroplani, nel Sud, che infatti avventurosamente ballano, strapiombano, si risollevano, si tuffano, appena in vista dell’isola, battuta, l’inverno, da venti omerici. Con l’aeroplano arrivano i nobili del « continente », per la prima al Teatro Massimo (libretto di Visconti, Filippo Sanjust e Enrico Medioli, Il diavolo in giardino, musica del palermitano Franco Mannino), Domietta  Hercolani e i Dentici del Frasso, nei palchi, insieme alla Pallavicini, principessa madre e figlia, a Nathalie Volpi di Misurata, ai Borghese, e naturalmente ad Uberta Visconti di Modrone. Nobiltà locale poca, se si esclude Giò di Mazzarino che è il critico di un giornale palermitano di sinistra, e figlio adottivo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il pubblico, diffidente: non si sa se per una sorta di ingenuo snobismo, o superbia provinciale, prima ancora che isolana; che agli ospiti venuti dal « continente » non passi per la testa l’idea di essere capitati tra persone senza uso di mondo, pronte alla meraviglia e all’applauso ebete. (Ma basterebbe un minimo di cultura, o solo guardarsi intorno, guardare dentro questa città dal fasto orgoglioso di Capitale, per sentirsi, al contrario, venendo di fuori, intimiditi…).

O forse perché la musica di Mannino è brutta, ed i palermitani, anche di ceto rozzo e ricco — come quello che riempie il teatro la sera della « prima », e sono deputati della Regione, speculatori edilizi, grossi commercianti d’agrumi e di elettrodomestici — se ne intendono tuttavia abbastanza da riconoscere il « pasticcio » di Bohème e Butterfly, messe proprio una vicina all’altra, e cattive canzoni napoletane, una zaffata di Verdi, una di Leoncavallo, e Rossini. Peccato, perché il libretto è una delizia: spiritoso, come è giusto e come ci si può aspettare che sia, avendolo scritto quel « Maestro di chicche » che è Luchino Visconti. (la definizione è dell’ultimo nemico di Visconti, Alberto Arbasino).

Enrico Medioli, che ha collaborato alla stesura de Il diavolo in giardino, propone come sottotitolo …O dell’Arcadia sbertulata.

Infatti, con un rovesciamento di gusti e propositi magari troppo facili, si vede in scena un Delfino di sei anni (il figlio di Maria Antonietta e di Luigi XVI) che canta: « A pastori e pastorelle, a villani e villanelle, a capretti e pecorelle, che bellezza far la pelle! ». Intanto che, in secondo piano, pastori e pastorelle intonano: « Di Giove hai la potenza, di Febo la bellezza, la tua Regal Grandezza riporta un secol d’or! ». E tutto questo per strappare al ragazzino una collana di diamanti di cui si è impossessato, e che è al centro della storia: ricalcata con un certo scrupolo sul famoso affaire du collier, come lo raccontano le cronache dell’epoca ed i romanzi di Dumas padre e di William Galt.

Non manca, nel libretto, l’ironia, e neppure il messaggio sociale, con la governante del Delfino che modula: « I diamanti non danno la felicità! », e le nerbate inflitte a un pastorello, in punizione per procura al Delfino che è stato cattivo: « Sarà Jacques a ricevere la punizione — gorgheggia la Governante — e se avete cuore, voi soffrirete più di lui ».

Ancora un pizzico di Freud — il Delfino che si lamenta: « Nessuno mi vuol bene » — e, già dal primo atto, l’arrivo della social climber in grandissimo stile, un personaggio che andrebbe ottimamente a Jeanne Moreau, ed è Madame de La Motte: Luchino l’ha vestita di rigonfio taffetà rosso-pompeiano, in accordo col colore dominante nel teatro dell’architetto Basile; una fontana di piume sulla testa, e garze e tulli verdi e arancio ne rilevano l’eleganza da parvenue. È Madame de La Motte che conduce l’intrigo attorno alla collana, inscenando travestimenti e falsi convegni d’amore tra la Regina Maria Antonietta e il cardinale de Rohan, una girandola di episodi inseriti nel tessuto storico della vicenda, dove appare, al punto risolutivo, Cagliostro.

Il Cagliostro di Luchino è il tenore Antonio Annaloro (Madame de La Motte è il soprano Clara Petrella), e canta in dialetto siciliano: una trovata legittima, giacché come si racconta nel romanzo storico di William Galt, Cagliostro era il palermitano Giuseppe Balsamo, nato nel vicolo della Perciata, il 2 giugno 1743.

Insomma, dopo avere portato per primo il dialetto nel cinema — ed era lo strettissimo, cupo siciliano de La terra tremaVisconti ora lo azzarda nel teatro dell’Opera. Bilinguismo, contaminazioni, pastiche alla Carlo Emilio Gadda. A non pretendere altro che il puro divertissement, sembra efficace questo Annaloro cinico Cagliostro, che canta: « È l’onuri un gran tisuru — pri i putenti e pri l’eroi — ma ‘na bursa china d’oru — è il tisuru ca fa pri nui ». (È l’onore un gran tesoro — per i potenti e per gli eroi — ma una borsa piena d’oro — è il tesoro che fa per noi).

Subito dopo, Cagliostro, preparandosi un caffè, solo in scena, si immalinconisce: « Comu è llario ‘u caffè di Parigi…» (Come è cattivo il caffè di Parigi). Ed ancora: « Peliermo… chi fetu di cipuddi in chidda stanza — quando tu ristavi ca ‘a panza vacanti…» (Palermo, che puzza di cipolle in quella stanza — quante notti passate a pancia vuota).

Qui il messaggio sociale arriva, ovviamente, al suo culmine: il grido, la fame. Ed è anche troppo facile ironizzare sulle debolezze del « conte marxista », rilevate ormai da qualche anno, una per una, dai suoi monotoni censori: l’éngagement e le opalines, la difesa del proletariato e i capricci e le impuntature per avere in scena l’autentico Tiziano, ecc.

A proposito, la domanda che Visconti si aspettava, dal cronista non informato era: « Il collier è quello autentico di Maria Antonietta? ». Ha avuto buon gioco a rispondere: « No, è falso. Quello vero, tra l’altro, Maria Antonietta non riuscì mai ad averlo tra le mani, non si sa dove sia finito… C’è stato un famoso processo. In Francia alcune signore si vantano di avere ereditato dal cardinale di Rohan qualche diamante a pera…».

Il collier era composto di 570 pietre. William Galt lo descrive così: « Non era un gioiello di fine gusto e di sapore d’arte. Era una di quelle collane che si chiamano “di Schiavitù”, di un disegno grossolano e pesante, ma di una ricchezza favolosa ».

Il collier che Visconti ha adoperato per Il diavolo in giardino è stato rifatto su un disegno dell’epoca, e se pure i brillanti sono falsi, non sarà costato meno di un paio di milioni di lire. Altre grosse spese di messinscena, veramente, non ce ne sono state: il regista si è limitato a pretendere due appliques originali Primo Impero, per illuminare il tempietto di Venere. L’opera è stata allestita con discrezione, se non con toni polemici di modestia: considerando che la storia di Il diavolo in giardino si svolge per tre quarti a Versailles, si può immaginare a quali sfrenatezze avrebbe potuto abbandonarsi Visconti. Invece no: qualche cactus sui capelli delle dame — che escono da un ballo en tête, a Corte — un tempietto, un berceau, una grande Venere di cartone grigio pressato, le cui natiche pizzute si volgono alla platea, lievemente illuminate di blu.

Si poteva osservare fin qualche trascurataggine, sciatteria: un tulle nero messo storto sugli alberi, a simulare la notte, i bauli di giunco della regina troppo nuovi.

E Luchino Visconti, intanto, annunciava che metterà in scena a Spoleto, per il Festival dei Due Mondi, una Traviata « poverissima ».
Adele Cambria
(Le Ore)