Il matrimonio di Figaro, Roma, Teatro Quirino, 19 gennaio 1946. Con un interprete come Vittorio De Sica, nella parte di Figaro, la commedia, grande commedia, avrebbe dovuto ridare, con la bellezza del suo linguaggio, quanto di amaro è riposto in essa; tutto il senso di sofferenza umana che l’opera contiene, pur sotto quel velo di divertimento, necessario per poter parlare in quel tempo. Ma il regista Luchino Visconti, riunendo le varie parti della vicenda in due soli atti, con un scenario fisso, ha voluto dare all’opera immortale un aspetto diverso, esteriore elegante e formale, ricavandone un piacevolissimo divertimento-balletto. Se lo spettacolo è risultato deliziosamente visivo, questo però non ha nulla a che fare con la sostanza della commedia.
Spettacolo, diciamo subito, singolare e meritevole della più rispettosa considerazione per l’intelligenza, il buon gusto, il fervore, i mezzi e la fatica che vi sono stati profusi. Ma, dobbiamo aggiungere immediatamente, spettacolo erroneamente impostato e, pertanto, sostanzialmente mancato, nonostante gli innumerevoli, vivacissimi scintillii di talento realizzativo, che l’hanno reso festevole e gradito agli spettatori. La preferenza di Visconti per i temi a substrato complesso, tormentato e morboso, che suscitano in lui il calore di un’appassionata aderenza, può ormai considerarsi acquisita. Dinanzi a opere di altro carattere, Visconti rimane distaccato, intimamente estraneo, e non può servirsene, quindi, altro che di pretesto per “fare spettacolo”. Egli è troppo uomo di teatro per non avvertire la necessità di risolvere spettacolarmente la realizzazione di un’opera che altrimenti rimarrebbe in lui fredda ed inerte, e si affida pertanto in tal senso alle risorse di sensibilità e di talento artistico così vaste ed incisive nella sua personalità sui risultati, però, è naturalmente sospesa in continuazione la spada di Damocle di una mancata partecipazione interiore, di una elaborazione tutta estraniata, mentale, decorativa. E indubbiamente gravi, per l’equilibrio e per il rendimento, sono i pericoli di una regia “a freddo” da parte di un temperamento irruente e insofferente come quello di Visconti.
Il testo di Beaumarchais è stato piegato a canovaccio di balletto, di pantomima, d’intenso, coloritissimo “divertissement”. Non saremmo certo noi a gridare allo scandalo per un’aprioristica opposizione. Opere della più alta nobiltà possono dar luogo, infatti, ad adattamenti e trasposizioni della più disparata levatura: quel che si richiede, però, è che la trasposizione sia veramente tale, che cioè i caratteri e i valori dell’originale appaiano trasfusi integramente nella riduzione o, per lo meno, con l’intensità massima che i nuovi modi di espressione consentono. Nell’adattamento visconteo, invece, la più grande parte delle preziosità del genialissimo orologiaio-musico-avventuriero e poeta settecentesco risultavano disperse, per dar luogo a delle molteplici e spesso disunite variazioni e compiacimenti spettacolari, i quali, scivolando a volte nelle mani e dalle intenzioni del regista, andavano a scadere in un sottofondo rivistaiolo.
L’interpretazione ha risentito dei difetti come dei pregi della regia, e non è valutabile su di un piano d’indipendenza recitativa. La più obbediente alle disumanate intenzioni dell’esecuzione ci è parsa Vivi Gioi; prodigio, ma a cavallo tra l’umanità e una festosità da “animatore” di “féerie” il De Sica, operettisticamente gustoso e corretto il Besozzi. Su Pierfederici ed il suo Cherubino si dovrebbe aprire un nuovo capitolo di discussione e perciò ci limitiamo a rilevare in conclusione che, nonostante le fondatissime critiche, lo spettacolo ha costituito, come tutto ciò a cui mette mano Visconti, l’argomento del giorno per la durata della sua programmazione negli ambienti romani, sia di autentica che di pseudo intellettualità.
Vinicio Marinucci
(tratto da Il dramma, 1° e 15 febbraio 1946)