Torino, marzo 1952.

Se Visconti è — come diceva Michele Gandin in una intervista pubblicata sul n. 75 di Cinema — uno dei pochi uomini di cultura del nostro cinema, potremmo chiederci se i suoi film abbiano esercitato, o esercitino, una influenza quale che sia anche fuori dell’ambito dello spettacolo cinematografico. Potremmo, cioè, chiederci in qual misura egli partecipi al movimento rinnovatore che ha tratto origine dall’esperienza “neorealistica” e quale sia il suo apporto alla forza di espansione culturale che quel movimento senza dubbio possiede. Rispondendo alla domanda, non dovremmo preoccuparci dell’esiguità quantitativa della sua opera (sinora tre film nello spazio di otto anni, e a notevole distanza l’uno dall’altro); semmai osserviamo, a questo proposito, che Visconti è stato spesso osteggiato dal mondo cinematografico e non ha potuto dire con più agio, interamente, la sua parola. I suoi film rappresentano esperienze di eccezione, nel quadro del cinema italiano, e da molti punti di vista; non sembra abbiamo avuto — ci riferiamo ai primi due: Ossessione 1943, e La terra trema 1948 — grande successo. Su questo piano non è stata esercitata alcuna influenza, a meno che non si vogliano considerare quei settori marginali del pubblico cinematografico che non hanno mai assunto, nonostante le pretese, una vera funzione di guida nei confronti della maggioranza. Le parole di Visconti sono cadute pressoché nel vuoto. Arretratezza culturale del pubblico, dunque, disabituato da una volgare produzione speculativa, a cogliere i valori nuovi, intenderli e assorbirli? Può darsi. Senonché, un fenomeno analogo si è verificato anche nell’ambito della cultura che pure aveva accolto senza indugio, e reagendovi con effetti positivi, la “sfida” del primo Rossellini o del migliore De Sica; si è verificato perfino negli ambienti che più sono vicini, ideologicamente, al regista. Si è giunti al paradosso che, neppure i marxisti hanno prestato molta attenzione all’opera di Visconti e, se si escludono le reazioni puramente verbali, non si è visto segno alcuno di quel sostanziale interesse che potrebbe indicare la “presa” di un fenomeno culturale su una determinata corrente. Sui marxisti ha agito assai più fortemente, per esempio, l’ultimo Guttuso (quello dei zolfatari siciliani, per intenderci); e, per quanto riguarda il cinema, superano Visconti sulla scala dell’influenza esercitata, un De Sica, un De Santis, addirittura un Germi. V’è stato, nei riguardi di Visconti, un inconfessato sospetto, una istintiva, anche se pubblicamente smentita, diffidenza.

Di questo fatto è stata data una spiegazione: s’è detto che Visconti, trovandosi in una delle posizioni di punta della cultura italiana, è assai più avanti rispetto ad una posizione media e comune, anticipa in un certo senso i tempi e proietta la sua opera nel futuro, quando, e solo allora, certi valori potranno essere universalmente compresi. Spiegazione logicamente ineccepibile: ogni artista, se davvero è tale, svolge un’azione anticipatrice e si colloca su di un piano su cui i contemporanei non sanno ancora porsi; spiegazione che, oltre tutto, consente di attribuire un valore d’arte ai film di Visconti con un ragionamento a rovescio quasi automatico. Ma, anche, spiegazione che equivale un po’ troppo scopertamente ad una profezia, pronunciata per forza d’intuizione (e perciò rispettabilissima) ma indimostrabile. Non v’è nessun commento da fare, in questo senso. Osserviamo piuttosto — lasciando impregiudicata tutta la questione attinente all’importanza e all’anticipazione dell’opera di Visconti — come il regista abbia ora, egli stesso, tentato di rompere gli argini che lo tenevano isolato, abbia inteso avvicinarsi a chi non può, non sa o non vuole avvicinarsi a lui. Bellissima (1951) ha, anzitutto, questo preciso significato. Scartati molti progetti — perché i produttori non gli permettevano di realizzarli (cosa assai triste che dovrebbe far parecchio riflettere coloro ai quali stanno a cuore le sorti del nostro cinema, la sua organizzazione, le sue possibilità di esprimersi) — Visconti non ha deciso ancora una volta per la rinuncia e per il silenzio. Si noti che, facendo questo, non si è piegato ad alcun compromesso ed ha anzi scoperto un impegno tenacissimo nel mantenere fede alla propria personalità e alla coscienza delle responsabilità che comporta un serio lavoro cinematografico. Ciò vuol dire che la decisione di affrontare il tema di Bellissima è stata esaurientemente ponderata e che ha un importante significato. Il significato, forse, di una umiltà raggiunta, di una rinunzia all’orgogliosa posizione da cui scaturisce il tentativo complesso, arduo, insolito, “coscientemente” innovatore. Oggi si potrebbe sostenere con egual diritto che Bellissima è, per Visconti, un film minore e che è il suo miglior film; e sosterremmo che è “minore” se condividessimo la tesi della “profezia”, mentre propenderemmo per la seconda ipotesi qualora valutassimo l’intera opera di Visconti con il metro della possibilità di espansione, di suscitare echi, di influire sulla cultura del tempo.

Distinzione inutile. Diceva Visconti nell’intervista citata: “Il soggetto è anche una parola. Una parola che mette in moto la fantasia e la carica umana del regista che la ascolta”. Una dichiarazione simile, il regista non l’avrebbe fatta al tempo di La terra trema, o se l’avesse fatta l’avrebbe colorita con tutt’altri toni. La differenza tra Bellissima e La terra trema è questa: nel film sui pescatori di Aci Trezza si era di fronte a un mondo che creava, esprimeva da sé, alcuni personaggi; nel film sulle ambizioni sbagliate di una popolana, vi sono alcuni personaggi che creano un mondo. Tutti e due i procedimenti sono legittimi, ma noi abbiamo il dovere di asserire che “la fantasia e la carica umana” di Visconti si esprimono e fruttificano meglio nel secondo che nel primo caso. Malgrado e a dispetto delle aspirazioni accarezzate nel corso di tutta una evoluzione personale dal lontano Ossessione ad oggi. Ancora: l’amarissima (a volte crudele e a volte pietosa) satira dell’ambiente cinematografico, la condanna delle ambizioni sbagliate della donna e di tutto un ambiente valgono in quanto vale la situazione umana dei personaggi: essi non traggono nulla dall’esterno, ma creano ogni cosa dentro di sé, e ciò che ottengono per sé comunicano all’esterno, incidendo sul costume, sul mondo entro cui vivono o vorrebbero vivere. Più che la tremenda soperchieria esercitata dal cinema deteriore sul pubblico (e questo film, tutto sommato, vuol rendere evidente), interessa a noi l’egoismo di Maddalena, il suo “non amare” la figlia, quel considerarla uno strumento inerte per realizzare un sogno quasi inconfessabile (questo significa per lei l’aver voluto essere attrice e non l’averlo neppure mai tentato) e, poi, la rivelazione improvvisa, stupenda, dell’amore materno che pareva scomparso dal suo animo, la reazione altrettanto violenta, e istintiva quanto lo era stata l’azione — umanamente errata e mostruosa — da lei prima condotta. Questa “vicenda” ha due cause che le dànno impulso e ragion d’essere: l’umanità, e quindi la sostanziale verità, di Maddalena da una parte, e l’assurda, meccanica, atroce organizzazione dell’ambiente cinematografico dall’altra. Giungiamo alla satira per la via più diretta ed efficace: la più semplice.

Una satira di questo genere è, forse, cosa nuova nella nostra cultura del Novecento: non riusciamo a inserirla in una tradizione, sicché a un certo punto qualcuno potrebbe anche sostenere che essa è, fondamentalmente, estranea allo “spirito” nazionale. Al contrario, essa perfettamente coincide con le tendenze che sono tipicamente nostre, italiane, “romane” se vogliamo ancor meglio precisare: e sono nostre nel profondo, di là dalla superficie quasi sempre falsificante del luogo comune. Più che ad una cultura intesa in senso stretto e con precisi riferimenti e ricorsi alle “fonti”, Visconti ha aderito ad una umanità, ad un senso della vita che riconosciamo nostro fuori di ogni elaborazione intellettuale. Ha fatto ciò che non è riuscito (il confronto può illuminarci su molti aspetti del problema) ad un Wilder, che con Viale del tramonto (Sunset Boulevard 1950) ha esercitato a vuoto quel suo cinismo che pure affondava le radici in tutta una tradizione culturale tedesca ed anglosassone (di cui si possono indicare come estremi Poe, Shaw e gli espressionisti). Ha fatto — si potrebbe anche aggiungere se fosse già tempo di compiere una revisione di tutta l’opera di Visconti — ciò che egli stesso non ha saputo fare che parzialmente in La terra trema, dove la presenza di un ricorso verghiano (per quanto sviluppato e “aggiornato”) frapponeva un ostacolo al contatto fecondo con la realtà.

Il capovolgimento psicologico che impronta di sé la conclusione di Bellissima (e che molti hanno, a torto, ritenuto ingiustificabile) ha un tono secco ed aspro, senza infingimenti e senza alcuna pateticità. Siamo pervenuti al nucleo stesso dei sentimenti umani, e vi siamo pervenuti secondo un procedere che sa di autentico (giusto in quell’ambiente, giusto con quei personaggi). Ogni cosa diventa semplice e naturale: come Maddalena si fa perdonare dal marito, come Spartaco comprende, perché ha già perdonato (ha perdonato fin dall’inizio l’errore della donna che voleva far della figlia un’attrice quasi per vendicarsi della propria sorte), come a Maddalena non resta altro da dire che promettere di “ammazzarsi di lavoro” per ricostituire il gruzzolo della famiglia. E, insieme a questo, risulta semplice e vera (eppure recisa, feroce) la condanna del “cinema”, di quel cinema.

Quel che nuoce a Bellissima è un’altra cosa.

Visconti è andato oltre la misura che sembrava essersi imposta: dal personaggio è passato al “mondo” che attraverso il personaggio condanna, e sul “mondo” si è soffermato più a lungo, con maggiore insistenza ed esasperazione, di quanto l’equilibrio della materia narrativa e del tema richiedessero. Lo “schifo” che prova Maddalena e che la respinge, si tramuta in più punti, troppo facilmente, nello “schifo” che prova lo stesso Visconti: ed ecco allora l’insistenza, la perdita del controllo, il compiacimento, la contemplazione stridente, gli episodi — citiamo i tre esempi più indicativi — della iniezione alla “mantenuta”, della visita di Maddalena all’atelier della sarta fiorentina e della lezione di ballo. Siamo al grottesco fine a sé stesso, ad un “sovraccarico” di moralità (e, al tempo stesso, di compiacimento: i due termini non si elidono), ad una mancanza di compostezza che contrasta fortemente con il nucleo del film. Una insincerità parziale che incrina la sincerità complessiva. Insincerità (voluta più che espressa o giustificabile attraverso le azioni compiute sino a quel momento) ci sembra anche la semi-riabilitazione del giovanotto truffatore — interpretato da Walter Chiari, che è l’unico a restare al disotto dell’eccellente livello della recitazione, su cui domina una Magnani al colmo delle sue possibilità espressive — perché non esaurisce i problemi del personaggio e non serve affatto chiarircene a fondo la natura. Occorre rifarsi sempre — se si vuole afferrare il significato positivo di Bellissima nel quadro dell’opera di Visconti e in quello più ampio dell’attuale cinema italiano — all’ossatura del film, a quelle situazioni e a quelle “condanne” così acutamente intuite ed espresse, a quel “mondo” creato con semplici mezzi. Resta — è vero — la disarmonia fra l’una e l’altra cosa, e nessuno potrebbe eliminarla con una serie di inconcepibili distinzioni. Ma ciò rientra nell’ambito della personalità di Visconti, la quale deve essere giudicata — oggi, sopratutto, dopo Bellissima — anche alla luce, ormai chiarissima, di quella disarmonia. Di quel contrasto non risolto.
f.d.g. (Fernaldo Di Giammatteo)
(Rassegna del Film)