Parenti terribili
Commedia in 3 atti di Jean Cocteau
Versione italiana di Rinaldo Ricci
Personaggi, intepreti: Yvonne (Andreina Pagnani); Leonia (Lola Braccini); Maddalena (Rina Morelli); Giorgio (Gino Cervi); Michele (Antonio Pierfederici)
Regia di Luchino Visconti
A Parigi, ai giorni nostri – Atto I e III: Camera d’Yvonne; Atto II: Appartamento di Maddalena
Le stanze saranno quelle di una famiglia in disordine e di Maddalena (il contrario). Un solo dettaglio obbligatorio: le scene, assai realistiche, saranno costruite solidamente affinchè le porte possano sbattere. Leo (Leonia) ripete spesso: “E’ la casa delle porte che sbattono”.
Prima rappresentazione al Theatre des Ambassadeurs, Parigi 14 novembre 1938
Teatro Eliseo, Roma, dal 30 gennaio al 19 marzo 1945.
La produzione
Abbandonate le rare e sparse voci del vecchio organismo teatrale, la nostra speranza s’è puntata verso le promesse del Teatro Eliseo con la nuova Società del Teatro di Roma, creata da Riccardo Gualino. Il quale ha un titolo memorabile in quel suo Teatro di Torino che visse tra il ’25 e il ’30 e in esecuzioni esemplari ci fece conoscere molta produzione italiana e straniera, di prosa e di musica, che per ragioni varie avrebbe allora difficilmente potuto raggiungere i nostri palcoscenici.
L’impresa di individuare in una grande congerie un repertorio interessante era in quel tempo meno ardua che oggi, in quanto per l’Europa vigoreggiavano ancora teatri d’ogni sorta, ricchi di tentativi più varii, favoriti dall’ultima ondata della curiosità pubblica verso il nuovo è l’eccezionale: tutt’insieme, una folta e diversa fioritura in cui il gusto di Gualino aveva avuto modo di scegliere. Oggi non c’è più verso queste con fiducia e desiderio, non c’è più che diffidenza.
Perché il nuovo pubblico è in parte non piccola fatto di gente che non era mai andata al teatro e la cui cultura letteraria non oltrepassa i romanzi gialli. Quanto ai vecchi ricchi, essi fanno ormai una classe unica, la quale non pensa altro che alla propria speranza di sopravvivere a tutto quanto deve accadere con stoltissima speranza.
Ma Gualino, che ha esordito con coraggio, se nel coraggio dura, non sarà vinto dalla difficoltà.
Massimo Bontempelli (Maschere – Roma, 30 gennaio 1945)
La critica (1)
Terribili parenti di Jean Cocteau all’Eliseo
Un grande pubblico, una stupenda interpretazione, un entusiastico successo. Il dramma di Jean Cocteau meriterebbe un esame approfondito per il suo valore artistico e per il suo valore morale negativo, ma lo spazio, più che mai tiranno, non ce lo consente.
È interessante rilevare come un cattolico militante quale è questo scrittore francese d’avanguardia, sia giunto alla presentazione di un dramma assolutamente spregiudicato dal punto di vista dell’insegnamento etico, le cui conclusioni sembrano da lui accettate: e tutto può soltanto giustificarsi per il fatto che qui si tratta nell’insieme di un caso clinico e non soltanto di uno. Lo sforzo di tutti i disordinati, di questo dramma, degli esseri di pura immaginazione, irregolari ed anormali, fallisce di fronte all’ordine “borghese” che reclama i suoi diritti e si impone Leonia, zitella e innamorata tradita e fedele al suo sogno, bonaria e benefica, ma col suo intimo felino istinto di vendetta, personaggio passivo del dramma, governa invece il ”carrozzone”, ossia la famiglia della sorella (colei che le ha portato via il fidanzato) del cognato e del nipote, gli irregolari ed anormali. E’ lei che muove le fila di quella piccola tribù di disgraziati, ai quali finisce per imporre la sua regola, il suo ordine, persuadendo il cognato a rinunziare alla giovane amante che poi sarà la moglie del figlio, senza, però riuscire ad impedire il suicidio della sorella, povera vittima di tutti e di se stessa. Cosicché dopo di avere con esasperata, tecnica analitica, sfiorato l’incesto fra il sensuale e il sentimentale della madre col figlio (influenze freudiane evidenti) Cocteau getta l’amante del padre nelle braccia del figlio, situazione semi incestuosa anche questa, e fa respingere dal figlio e da. tutti concordemente l’unica soluzione veramente morale: la partenza del ragazzo nell’Indocina; evasione e guarigione insieme e questa sarebbe stata la vera morale “borghese”.
Ad ogni modo a noi preme sopratutto sottolineare non quello che è detto, ossia la espressione artistica, che è a tratti potente, e se nel primo atto l’analisi fosse stata contenuta in una maggiore sobrietà il dramma avrebbe raggiunto un tono più elevato nell’economia artistica, perfettamente equilibrata. L’interpretazione, come si e detto, guidata dalla regia di Luchino Visconti, è stata efficacissima. Le particolari fatiche (si tratta proprio di vera fatica) della Pagnani vanno elogiate, assai espressiva ed incisiva la Morelli, il Pierfederici ha felicemente superato ii suo esame di maturità d’attor giovane, pregevole la bravura della Braccini e come sempre plasticamente equilibrato il Cervi. Applausi a scena aperta, chiamate senza numero ad ogni fine d’atto, calorosissimi. Da oggi le repliche.
a.d.d. (La Voce Repubblicana – Roma, giovedì 1° febbraio 1945)

Notizie
Cronaca della città. Andreina Pagnani costretta a sospendere le recite. La signorina Andreina Pagnani, interprete della commedia I parenti terribili, che si recita all’Eliseo, è stata costretta a sospendere le recite che potrà riprendere soltanto fra due o tre giorni, in seguito ad un abbassamento di voce dovuto all’eccessiva fatica impostale dalla recitazione.
(Risorgimento Liberale – Roma, martedì 13 febbario 1945)
La critica (2)
Spettacoli a Roma
Ed eccoci al più grande successo della stagione, che è impossibile sia superato, e difficilissimo sia uguagliato, da altri: successo pieno e clamoroso, forse cinquanta chiamate in tre atti, senza uno screzio: al Teatro Eliseo, con Parenti terribili (cattiva traduzione dell’originale titolo Les parents terribles) di Jean Cocteau. Credo che il successo sia dovuto il novanta per cento alla stupenda esecuzione e il dieci per cento a qualità (di genere inferiore) del dramma. Il pubblico strabocchevole che il nome dell’autore aveva chiamato, non si meravigliò affatto né si dolse di non trovare un Cocteau ch’esso non aveva mai conosciuto: non il Cocteau avanguardista, fumista, scanzonato, d’intelligenza tanto raffinata da arrivare per essa alla lirica; ma un Cocteau gareggiante, se non con Sardou, con Kistemaekers e con Bernstein. Perché ha fatto questo? Si possono offrire dello strano fenomeno due ragioni, scelga ognuno quella che più gli piace, Tra coloro che a un dipresso tra il 1890 e il 1910 avevano creato in tutta Europa quella che fu chiamata “letteratura di avanguardia”, cessati press’a poco con l’altra guerra ogni ragione e ogni gusto avanguardista, si notarono tre atteggiamenti diversi. Alcuni in quella vampata bruciarono, e poi continuarono ad agitarsi in un perpetuo invasamento distruttivo senza riesaminare i risultati e le mutate necessità (per dare un esempio facile nostro: Marinetti); altri si spaventarono di quello che avevano fatto e s’affrettarono a tornar subito indietro, a qualche situazione superatissima (esempio: Soffici); i terzi, che furono i meno, traversato l’incendio ne uscirono con forze rinnovate e procedettero (esempio: Palazzeschi). A quale delle tre schiere si accosterebbe Cocteau con questo dramma? A prima vista si risponderebbe alla seconda: invece che a un vieto classicismo di scuola, come altri, egli avrebbe scelto un altrettanto vieto teatralismo drammatico. E’ partito da un freudismo già popolarizzato sulle scene da O’Neil, per innestarlo in un impianto teatrale romantico e postromantico. Questo ha fatto Cocteau con questo dramma; ma non si deve pensare che vi sia stato spinto da una grossolana e spaventata sincerità, come in quegli scrittori che ho messo nella seconda schiera. È più facile credere che egli, con animo da dilettante ingegnoso, abbia fatto una specie di scommessa con se medesimo: spariamo il colpo d’un tentativo sul gusto che sia il più lontano possibile da quello per cui l’Europa letteraria mi conobbe fino a ieri, tentiamo un successo teatrale grosso, da soddisfare non più un teatrino per raffinati, ma un teatrone da piazza. C’è riuscito, come s’è visto. Certo, con quel piglio e quei mezzi, egli non ha senz’altro messo insieme una imitazione di qualcuno di quegli autori che avevano raggiunto lo stesso scopo, come accadde per esempio a Niccodemi. Ma gli ingredienti ch’egli ha introdotti per dare un sapore nuovo alla vecchia costruzione (il detto pizzico di freudismo, dimenticato per strada e non ripreso che alla fine per concludere in qualche modo la vicenda, e qualche altra misteriosità campata alquanto in aria’ e non portata alle sue possibili conseguenze poetiche) non sono certo quelli che hanno fatto presa sul pubblico, il quale vi è scivolato sopra (come aveva fatto lo stesso autore) e non s’è buttato manifestamente che alla parte più materiale del grosso budino drammaturgico.
La favola è nota. Una madre quarantenne isterica (Yvonne) morbosamente attaccata, mediante un cordone ombelicale rinforzato infrangibile, al figlio di ventidue anni. Prima complicazione: questa madre ha una sorella (la zia Leo) ch’era stata fidanzata ed è tuttora innamorata di Giorgio ma lo ha ceduto alla sorella, e ora vive in famiglia come direttrice misteriosamente spirituale di tutti e tre, Yvonne, Giorgio, e il detto figlio (Michele). Seconda complicazione: il figlio ha una giovane amante (Maddalena) la quale ha un mantenitore cinquantenne che per prudenza le si è presentato sotto un falso nome, e con il danaro di costui sovviene il giovinetto Michele. Terza complicazione : questo cinquantenne, a insaputa di tutti, è proprio Giorgio, il padre del giovane. Ultima complicazione: dea ex machina (ma dal principio alla fine, non solamente nella soluzione finale) e motrice più o meno occulta di tutte le azioni dei suoi congiunti nonché della giovinetta Maddalena, risulta la zia Leo. In mano di un Ibsen questa zia sarebbe divenuta la vera protagonista del dramma rimanendone protagonista apparente qualcuno degli altri, come avviene in Spettri (con ben altro risultato tragico) tra le persone di Osvaldo e della signora Alving. Il congegno degli esteriori eventi (sul quale esclusivamente, secondo il sistema del dramma popolare, si opera il trascinamento del pubblicone) non occorre raccontarlo.Non si loderà mai abbastanza la precisa, gelosa, sagace regìa di Luchino Visconti, sia per la genialità dei due scenari a contrasto (quello complicato e misterioso del primo e del terzo atto, in casa della bislacca famiglia, e quello nitido e riposato del secondo, in casa della fanciulla), sia per l’armonica impostazione dei movimenti, delle gradazioni di voci, di ogni particolare della interpretazione realizzante di tutto il lavoro. Come ho detto cominciando, è stato un vero trionfo, soprattutto delle due donne a contrapposto: la Pagnani e la Morelli. La Pagnani (Yvonne) si è prodigata oltre il verosimile in una parte tutta gridata, tutta esasperata: ci ha riportato al gusto di quelle grandi attrici drammatiche di cui si ricordano i più anziani, e che si credeva perduta; il pubblico non si stancava dall’acclamarla. E cosi la Morelli, la quale con una parte priva di ogni risorsa teatrale ci ha tutti soggiogati alla più incantata ammirazione per il suo intensissimo gioco, tutto intimo, contenuto, costretto, tessuto di silenzi e di immobilità. Gli altri le hanno ben secondate. Il giovanissimo Pierfederici ha superato vivacemente tutte le difficoltà d’una parte continuamente espansiva e tutta movimento; la Braccini ha posto un impegno sommo a chiarire l’ambiguo e l’inesplicato del personaggio larvale della zia Leo. Da troppi anni ho imparato ad ammirare le qualità di Cervi (Giorgio) per non dovermi permettere di segnalargli che la sua recitazione è stata troppo, vorrei dire, naturale per non stonare alquanto in quella sinfonia di esasperazioni; è doveroso riconoscere che gli era stato affidato il personaggio più ingrato e assurdo di tutto il dramma.
Massimo Bontempelli (Maschere – Roma, 15 febbraio 1945)