Bellissima cronaca di Gian Luigi Rondi:

“Sono stanca, signuri”, dice la protagonista a Luchino Visconti, perché si alza all’alba per accudire ai suoi lavori di casa e poi deve “parlare nel cinema”
Aci Trezza, sulla via di Catania, fra Aci Castello e Acireale, è un villaggio siciliano di marinai e pescatori che ha conosciuto già una volta gli onori della nostra letteratura. “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buon e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo …” Così cominciava Verga il suo libro e queste righe a ognuno di noi sono care e presenti come il memorabile inizio di “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno”.
Il cinema nasce ad Aci
Oggi, ad Aci Trezza, nasce un nuovo cinema italiano quasi per suggestione popolare, allo stesso modo di come circa settant’anni or sono nacque il nuovo romanzo italiano, dallo “studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime inquietudini pel benessere” (da G. Verga, I Malavoglia, Prefazione).
A Luchino Visconti che dopo Ossessione non s’era più avvicinato al cinema, si son venuti facendo, in questi anni, pressanti e imperiose queste “prime inquietudini pel benessere”. Soldati va in Piemonte, fra contrabbandieri e montanari, De Santis in Lombardia fra le mondine della pianura Padana, Rossellini, sulla costa sorrentina fra i paesani di Amalfi, e Visconti va in Sicilia, fra i pescatori d’Aci Trezza.
La vicenda del suo film non la scrive prima, saranno gli indigeni a insegnargliela. Parte con due fogli scritti a macchina, in cui ha abbozzato le linee essenziali della storia e le fisionomie dei personaggi principali attorno a cui svolgere la trama secondo i suggerimenti immediati che gli darà la situazione locale e la “fatale necessità”.
Pescatori a parlamento
Ad Aci Trezza infatti, è ad attendere Visconti la famiglia Valastro; la sua storia ripete nella realtà quotidiana, quella che tutto il paese conosce, la storia antica dei Malavoglia. Vivono i membri di questa famiglia, come tutti li intorno, della sola pesca, ma i pescatori in quei luoghi non sono dei piccoli proprietari, sono invece operai che pescano per conto di altri cui appartengono le barche e le reti.
Toni, il figlio maggiore della famiglia Valastro, un giorno aveva voluto farla finita e, convinti i suoi a vendere la casa, aveva acquistato in proprio il battello e le reti; la sua pesca sarebbe andata a vendersela altrove e i proprietari, una volta tanto, sarebbero stati sconfitti. Ma una tempesta gli aveva fatto far naufragio e, quand’era tornato alla riva, le reti erano perdute e il battello quasi completamente distrutto. Il disgraziato tentativo aveva causato non pochi guai alla famiglia Valastro e aveva tolto a tutto il paese ogni speranza di migliorare.
Tutto era già veramente avvenuto, dunque, e proprio come Visconti pensava, il pesce vorace aveva inghiottito il più piccolo. Toccava ora ricostruire pezzo per pezzo la storia in tutti i suoi elementi, con tutti i suoi autentici protagonisti. L’intero paese prese parte al film. Superate le prime ritrosie, i primi malintesi così facili nella quasi conventuale vita siciliana, i pescatori cominciarono la loro singolare collaborazione con Visconti, come se fossero riuniti a parlamento.
Sulla piazza grande del paese, circondato dagli uomini, ma udito anche dalle donne che sostano sui balconi e le terrazze, il regista spiega coram populo la storia della famiglia Valastro, dice che a quel dato momento il figlio maggiore ha fatto questo e quello, ha parlato con il tale, ha domandato questo … “Che ne pensate, ora? — grida Visconti all’eccezionale assemblea — cosa deve rispondere Padron Nino al pescatore Toni? E sua madre che deve fare?”. I pescatori parlano, discutono, qualche volta si litigano, finalmente rispondono e i soggettisti che hanno seguito Visconti prendono nota delle loro parole.
“Allora — continua Visconti — Toni adesso ci farà vedere come faceva quando domandava a Padron Nino …”. E Toni senza saperlo, comincia a recitare la sua parte sulla piazza del villaggio, in mezzo ai suoi amici. I disegnatori della “troupe” prendono schizzi e appunti dei suoi gesti e dei suoi atteggiamenti. Il giorno dopo si gira la scena che s’è discussa il giorno prima “a parlamento”: il dialogo viene verificato sugli appunti, le posizioni sugli schizzi. Qualche volta il pescatore scelto per l’interpretazione di una scena arriva col vestito della festa, ma Visconti ha i disegni e le note che parlan chiaro e la discussione finisce presto.
I pescatori, pur senza capire questa necessità di essere “come sono sempre” si lasciano facilmente convincere. Tornano a casa, si cambiano, ritornano sul posto per “girare”, poi se ne vanno tranquillamente al lavoro che nessuno in genere, ha pensato d’interrompere. Ad Aci Trezza, infatti, si possono udire degli strani discorsi, quello della protagonista femminile del film, ad esempio: “Sono stanca, signuri, mi alzo alle sei, devo preparare la colazione per la mia famiglia, pulire la barca di mio padre e preparargli le reti. Poi vengo qui, per parlare nel cinema e debbo far dieci o undici volte la stessa cosa. A mezzogiorno torno a casa per far da mangiare ai miei fratelli, torno qui di corsa; alle sette scendo sulla spiaggia perché papà torna dalla pesca e debbo portargli le reti. Poi la cena, poi lavo i piatti …”.

“Eccu nu cavaddu biancu”
Attori d’eccezione, non c’è che dire. Bisogna vederli, difatti; vedere quanto Visconti ha saputo trarre della loro sincerità, della loro interezza non guasta da alcun raffinamento, nè da alcun studio. I tredici o quattordicimila metri di pellicola già passata al montaggio, che ho potuto vedere qui in Roma, mi hanno rivelato delle commoventi vittorie ottenute da Visconti sul materiale umano che era andato a cercare in Sicilia.
C’è un viso di donna già rotondo e segnato da un’incipiente maturità, in cui i tratti, marmorei dell’antica fissità siciliana, son divenuti splendida materia plastica per i consigli del regista. La ragazza che è al centro della storia d’amore ha una freschezza d’espressioni pari soltanto alla loro straordinaria esattezza e questo si badi, è maggiormente visibile nelle sequenze ripetute per prova tre o quattro volte.
Racconta, per esempio, la ragazza, una storia di fate a una bambina seduta davanti a lei con una bamboletta in braccio. Le gambe penzolanti dal letto guardando fuori dalla finestra come se realmente vedesse quanto dice, sillaba con la voce un po’ estatica di quando si parla ai bambini: “Eccu nu bedda cavaddu biancu …”. Intorno la quotidiana atmosfera delle solite cose, rosari appesi, immagini, specchi rotti e lettucci di ferro, s’infiamma nell’alone della poesia.
Ed ecco nelle strade grigie di pioggia, incassate fra i muri slavati, quattro o cinque uomini neri, con l’ombrello in mano: vanno a pignorare la casa dei Valastro; la gente si affaccia sulle porte, la desolazione della giornata piovosa trova elementi più sinistri e finalmente esplode nelle sequenze del pignoramento ritmata dalla voce incolore dell’usciere e dai colpi d’ombrello che uno degli uomini batte monotonamente sui muri per saggiarne la solidità. Ai protagonisti basta un gesto, un’occhiata perché la loro vita si riveli, la loro psicologia si dichiari.
Sia che le barche escano dal porticciolo al tramonto, illuminate a prua dalle lampade, sia che un uomo e una donna facciano all’amore inseguendosi tra gli ulivi e fichi d’india, o a casa Valastro volgano ore gravi e attorno alla tavola nonno e nipoti discutano sull’ingiustizia degli uomini (mentre la donna, nell’arco d’un braccio con preziosità d’inquadratura quasi fiamminga, tutto osserva in silenzio), o il mercato del pesce porti una nota corale, ogni sequenza, ogni gesto degli attori rivelano che Visconti, ad Aci Trezza ha trovato, come Verga, la poesia nella verità.
Gian Luigi Rondi (Cinestar N. 21, Roma, 15 Maggio 1948)